venerdì 19 aprile 2013

TRIBUNALE SUPREMO MILITARE
               Sentenza n. 747 del 26 aprile 1954

“” In questa sede non può trovare asilo passione politica alcuna. Nell’immediato dopoguerra le divergenze politiche e ideali, i risentimenti delle famiglie e degli individui, il sangue sparso e la visione della Patria umiliata, dilaniata e infranta, ebbero indubbiamente influenza sul corso normale della  Giustizia che, attraverso l’Alta Corte e le Sezioni Speciali di Corte d’Assise, pronunciò talvolta severissime ed estreme condanne. Ma oggi che il Paese può dirsi risorto, mercè l’opera costruttiva dei suoi Governi e il sacrificio, l’energia e la forza d’animo di tutto il Popolo italiano, la Giustizia deve adempiere con la maggiore serenità ed obiettività possibile la sua missione, sceverando la colpa dall’errore, il delitto dall’azione ritenuta di giovamento nel divenire della Patria, e soprattutto rimanendo nei binari della legge. Questo Tribunale Supremo Militare ricorda l’anelito di pacificazione che pervade tutto il Popolo italiano e tutti i partiti, niuno escluso, anelito tradotto dai singoli Governi che si sono susseguiti, dal 1946 a oggi, in decreti di Sovrana clemenza, intesi a porre sempre più sullo stesso piano morale tutti gli italiani in buona fede, per modo che tutti si sentano figli della stessa Patria e non vi siano più dei tollerati, degli umiliati e dei reietti, cui si possa, ad ogni istante, rinfacciare un passato che fu piuttosto opera del fato, che degli individui, salvo la legittima repressione dell’azione delittuosa, da chiunque commessa, secondo i canoni immutabili del puro diritto.
 Le leggi che continuamente si susseguono in pro della pacificazione (da ultimo la pensione concessa agli appartenenti alla Milizia), dimostrano a chiare note l’indirizzo non solo giuridico, ma altresì etico del Governo e del Parlamento.
 La cronaca sta diventando storia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e nei primi anni del dopoguerra, “quelli del Nord” additavano come traditori “quelli del Sud” e viceversa. Gli appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana si ritenevano unici depositari dell’onore militare e dell’amor di Patria, e lo stesso ritenevano coloro che avevano seguito il Governo del Re.
 Un popolo di antica civiltà romana e cristiana, un popolo che ha sempre insegnato al mondo il giusto cammino, era, dunque, diventato un popolo di traditori.  Le leggi del vincitore avevano dettato severissime norme contro il collaborazionismo; ma al giudice spettava e spetta di esaminare e vagliare se tradimento ci fu, o se solo vi fu incomprensione o errore.
 Questo Tribunale Supremo Militare, giudice esclusivo del diritto, sente l’altezza del suo compito, nell’ora in cui è doveroso esprimere una valutazione e un esame approfondito, sereno e obiettivo delle questioni proposte, nel rispetto delle Convenzioni internazionali e del diritto interno, e nello spirito cui oggi si informano Governo e Parlamento.
 Pertanto appare necessario prendere anzitutto in esame talune questioni fondamentali trattate dalla gravata sentenza e specialmente quelle che concernono il carattere della Repubblica Sociale Italiana, la posizione giuridica dei partigiani, gli ordini e i bandi emanati dai Comandi partigiani e, infine, le discriminanti concernenti l’adempimento del dovere e lo stato di necessità.”
                                                        PRIMO
       CARATTERE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
“…Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, la sovranità di fatto o meglio l’autorità del potere legale, fu nella parte dell’Italia ove risiedeva il Governo legittimo, esercitata dalle Potenze alleate occupanti. Non poteva altrimenti essere, dal momento che, durante il regime di armistizio, permaneva lo stato di guerra e l’occupante era sempre giuridicamente “il nemico”.
 Basti considerare che tutte le leggi e tutti i decreti, compresa la legge sulle sanzioni contro il Fascismo (Ordinanza n.2 della commissione alleata in data 27 aprile 1945), ricevevano piena forza ed effetto di legge a seguito di ordini degli alleati. Pertanto il Governo del Re era un Governo che esercitava il suo potere “sub condizione”, nei limiti assegnati dal comando degli eserciti nemici.
 Le situazioni contingenti che ebbero a verificarsi per la dichiarazione di guerra alla Germania, per la cobelligeranza e per i comuni interessi esistenti tra lo Stato italiano e gli Stati alleati, non possono mutare e trasformare la situazione giuridica che si era creata secondo quelle che erano le regole del diritto internazionale.
 Se questi erano gli aspetti giuridici della Sovranità nell’Italia del Sud,  non poteva per certo il legittimo governo italiano, che aveva solo quella limitata potestà che le potenze occupanti gli concedevano, interferire nell’Italia del Nord e del Centro, dove gli alleati non erano ancora pervenuti. L’autorità del potere legale era colà in altre mani: una nuova organizzazione politica erasi creata, con un proprio governo e, cioè, la Repubblica Sociale Italiana, riconosciuta come Stato soltanto dalla Germania e dai suoi alleati.
 Indubbiamente tale nuovo Stato non poteva essere considerato soggetto di diritto internazionale, con gli attributi della piena sovranità dagli Stati che non lo avevano riconosciuto; esso assumeva, almeno formalmente, la piena personalità giuridica solo di fronte agli Stati che gli avevano conferito detto riconoscimento. Tuttavia non poteva, nel campo del diritto delle genti, negarsi che, comunque, un’organizzazione statuale, sia pure di fatto, esisteva, avente capacità giuridica propria e una propria sfera, sia pur limitata, di autonomia, la quale ultima, si rilevi, non è sinonimo di indipendenza e di sovranità che altrimenti dovrebbe parlarsi di  Stato di diritto.
 E’ comunemente accettato nella dottrina internazionalistica che, nel caso si verifichi un movimento insurrezionale, sussiste un governo di fatto in quella parte di territorio assoggettato al controllo degli insorti e sottratta al controllo del governo legittimo.
 Quest’ultimo perde, “de facto”, le attribuzioni e le competenze di diritto internazionale, condizionate all’esercizio della potestà territoriale, essendo ad esso succeduto, in quella parte di territorio, il governo degli insorti.
 Indubbiamente pressoché immutato era rimasto l’ordine giuridico esistente nella Repubblica Sociale Italiana: gli stessi codici, le stesse leggi venivano applicati dagli organi del potere esecutivo e dalla Magistratura. L’organizzazione statuale si manteneva in piedi a mezzo delle autorità preposte (dei Prefetti, delle Corti e dei Tribunali, degli uffici esecutivi, delle Forze Armate e di Polizia).
 Evidentemente l’Autorità tedesca ebbe allora ad inserirsi nella vita italiana del centro-nord, con i suoi principi e i suoi durissimi metodi di lotta; indubbiamente le autorità della Repubblica Sociale Italiana subirono talvolta la pressione e le direttive del loro alleato, pur opponendosi spesso con energia alle sue iniziative; ma tutto ciò non può mutare la posizione giuridica della Repubblica Sociale Italiana, di essere un governo di fatto, sia pure a titolo provvisorio, che manteneva relazioni diplomatiche con alcuni Stati e intrecciava rapporti internazionali, quanto meno ufficiosi, con molti altri che pur non l’avevano riconosciuta.
 La storia di tutte le guerre insegna che molto spesso, anche quando trattasi di alleati, che insieme combattono sul territorio appartenente ad uno di essi, lo Stato più forte e più potente finisce col prendere le maggiori iniziative, interferendo nella vita e nella potestà dello Stato meno forte, imponendo le sue direttive e, talvolta, la sua forza e i suoi tribunali (esempio: corpi di spedizione alleati nella guerra 1915-1918 in territorio greco). Tuttavia la situazione di fatto che viene a crearsi tra l’alleato più potente e quello meno forte non incide sul carattere formale e giuridico dell’alleanza. Da ciò consegue che, nella specie, non basta rifarsi ai metodi tedeschi, per dedurne che essi erano gli occupanti e per negare alla Repubblica Sociale Italiana il carattere di un governo di fatto; né la situazione fluida, durata pochi giorni, tra l’8 e il 23 settembre 1943, giorno in cui Mussolini ebbe a proclamarsi capo dello Stato fascista repubblicano e capo del governo, autorizza a ritenere che solo un regime di occupazione siasi costituito nel centro-nord dell’Italia, ad opera delle Forze Armate tedesche. Si dimentica in tal modo che anche le Forze Armate alle dipendenze di Mussolini e di Rodolfo Graziani occupavano il territorio suddetto. Che l’Ordinanza Kesserling, in data 11 settembre 1943, che assoggettava il territorio italiano alle leggi tedesche, cessò di avere efficacia proprio con il 23 settembre 1943, quando, se pur non ancora proclamata la Repubblica Sociale Italiana (che nacque il 25 novembre 1943), esisteva già il cosiddetto Stato Fascista Repubblicano.
 Certo è che in quei giorni la sovranità dello Stato italiano si ridusse solo ad una consistenza formale e giuridica: il Re aveva lasciato la capitale e con il suo governo aveva, a seguito dell’armistizio, preso contatto con gli alleati, nel nobile intento di salvare l’unità e l’indipendenza d’Italia. Il Governo legittimo potè così incominciare a consolidarsi, secondo le direttive degli alleati e a lanciare i suoi ordini e i suoi proclami.
 Dal parallelo che scaturisce tra il regime del centro-nord e quello del sud appare, dunque, che “de facto”, il Governo legittimo e quello di Mussolini avevano una libertà limitata: “de jure” era, peraltro, preclusa, al governo legittimo, ogni indipendenza, mentre invece tale formale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale Italiana che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l’autorizzazione dell’alleato tedesco.
 Quando vuol darsi una definizione giuridica di una organizzazione insurrezionale è, pertanto, necessario non solo prendere in esame il suo ordinamento giuridico e la sua sfera di autonomia nel territorio ad essa soggetto, ma guardare altresì detta organizzazione al cospetto degli altri Stati, con particolare riferimento al governo legittimo. Se lo Stato nazionale domina, nonostante l’insurrezione, la situazione che si è creata, e ha la possibilità e la capacità di esaurirla in breve termine, allora può discutersi e forse anche negarsi l’esistenza di un governo di fatto insurrezionale.
 Ma quando tale capacità non esiste, quando il governo legittimo è addirittura alla mercè del nemico, e l’autorità del governo insurrezionale si consolida nei suoi ordinamenti, e la sua vita è di non breve durata, allora non è più possibile negare a quest’ultimo il carattere di un governo di fatto, secondo i principi comunemente accolti nella dottrina internazionalistica.
 Pertanto deve concludersi che la Repubblica Sociale Italiana era retta da un governo di fatto, dalla quale nozione scaturiscono le conseguenze giuridiche che tra breve saranno esaminate.

                                         SECONDO
I COMBATTENTI DELLA REPUBBLICA SOCIALE DEBBONO ESSERE CONSIDERATI BELLIGERANTI
 Per esaminare a fondo il problema occorre rifarsi all’origine della belligeranza.
 Quando fu pubblicato l’armistizio dell’8 settembre 1943, una parte delle Forze Armate italiane non lo accettò e proseguì nelle ostilità contro il nemico, e, cioè, contro gli alleati che avevano messo piede in Italia.
 Indubbiamente i comandanti dei reparti che non obbedirono agli ordini del governo legittimo violarono la norma di cui all’articolo 168 Codice Penale Militare di Guerra, con cui si punisce l’arbitrario prolungamento delle ostilità. Questo fatto non sopprimeva, di fronte agli alleati, la qualità di belligeranti che spettava a tutti i combattenti; di fronte agli anglo-americani e loro alleati, tuttora nemici, anche in clima di armistizio non potevano i combattenti italiani – sia pure ribelli agli ordini del supremo comando italiano – perdere il loro carattere di belligeranti, così come è stabilito nelle convenzioni internazionali e come è comunemente accettato.
 Mai è avvenuto nella storia di tutte le guerre, di negare tale caratteristica alle truppe che non accettano la resa. Colpevoli i combattenti che non obbedirono agli ordini del Re, di fronte allo stato italiano, ma sempre soldati e belligeranti di fronte al nemico. I combattenti che non si arresero ritennero di dover mantenere fede all’alleato tedesco, e fronteggiarono a viso aperto l’avversario, venendo dal medesimo fino all’ultimo trattati come combattenti e come belligeranti.
 L’art. 40 del citato regolamento annesso alla Convenzione dell’Aja dichiara che ogni grave infrazione dell’armistizio, commessa da una delle parti, dà diritto all’altra di denunciare e, in caso di urgenza, anche di riprendere immediatamente le ostilità. Nella specie che ci occupa non ci fu infrazione da parte dello stato italiano, ma solo da parte di considerevoli unità di terra, di mare e dell’aria. Ed allora il conflitto non ebbe a cessare: gli alleati fronteggiarono egualmente truppe tedesche e italiane, e solo più tardi, molto stentatamente, si attuò la cobelligeranza coi reparti regolari italiani, fiancheggiati dalle formazioni partigiane. Ciò appartiene alla Storia.
 Non può, pertanto, negarsi, alla stregua dell’art. 40 suddetto, che gli appartenenti alle Forze Armate della R.S.I. abbiano conservato la qualità di belligeranti, né è possibile concepire che tali forze avessero detta caratteristica solo di fronte agli alleati e non al cospetto dei cobelligeranti italiani.
 Ecco come si spiega il trattamento di prigionieri di guerra concesso dagli alleati – d’accordo col governo legittimo italiano – ai militari delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, sin dai primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle teorie unilaterali che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare il carattere di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana, argomentando in maniera erronea e fallace, in base alle norme della legislazione italiana post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il profilo del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al riguardo.
 Belligeranti, dunque, erano i combattenti del centro-nord, anche se ribelli o insorti e, quindi, punibili secondo il diritto interno in base allo svolgimento di regolarui giudizi. Ma pure da un altro punto di vista si conferma la tesi su esposta. Accertato che la Repubblica Sociale Italiana concretava un governo di fatto, soggetto di diritto internazionale, entro certi limiti, non poteva, sotto questo riflesso, negarsi ai suoi combattenti la qualifica di belligeranti.
 Anche a voler considerare, per dannata ipotesi come fa la sentenza impugnata, i reparti della Repubblica Sociale Italiana quali milizie alle dipendenze del tedesco invasore, egualmente dovrebbe ad essi riconoscersi la qualità di belligeranti, perché comandati da capi responsabili, portavano segni distintivi e riconoscibili a distanza, apertamente le armi, e si conformavano, per quanto era possibile, nei confronti dell’avversario belligerante, alle leggi e agli usi di guerra (i partigiani non erano belligeranti, come si vedrà in seguito); né può far velo a tale soluzione giuridica la caratteristica insurrezionale di detti reparti, poiché l’art. 1 della Convenzione dell’Aja non fa distinzioni di sorta. D’altronde l’interpretazione pressoché autentica di questi principi è fornita dall’art.4 della Convenzione di Ginevra, 8 dicembre 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, convenzione che ha reso normativo quello che era già accettato nell’attuazione pratica del diritto internazionale bellico.
 Infatti il n° 2 del detto art. 4, prendendo evidentemente le mosse dall’art. 3 del Regolamento annesso alla Convenzione dell’Aja, il quale dichiara che gli appartenenti alle Forze Armate delle parti belligeranti hanno diritto, in caso di cattura, al trattamento dei prigionieri di guerra, precisa che sono prigionieri di guerra i “membri delle altre milizie e i membri degli altri corpi volontari, ivi compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una parte in conflitto e agenti fuori e all’interno del loro territorio, anche se questo territorio è occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi compresi i movimenti di resistenza organizzati, adempiano le condizioni seguenti:
a)    Avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati;
b)    Avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza;
c)    Portare apertamente le armi;
d)    Conformarsi, nelle loro operazioni,alle leggi e agli usi di guerra.  
 Questi principi erano stati già applicati durante la guerra, tant’è che gli alleati ottennero dalla Germania il trattamento di legittimi combattenti alle formazioni della “Francia Libera” del Generale De Grulle, nonostante la resa dello Stato francese.
L’impugnata sentenza tratta in modo troppo semplicistico il problema della belligeranza, considerando l’organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana come “rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, e quindi non aventi alcun valore le norme, gli ordini, i vincoli di subordinazione e i poteri gerarchici da essa emanati”.
 Pertanto, rifacendosi solo al diritto interno, negando la caratteristica di governo di fatto alla Repubblica Sociale Italiana, che perfino il Pubblico Ministero aveva riconosciuto con serena obiettività e profondità di argomentazioni – pur non traendone le necessarie conseguenze – ha finito col non ritenere la belligeranza degli avversari, per potere, in prosieguo di motivazione, trattare soltanto da ribelli i combattenti della Repubblica suddetta, ed escludere, quindi, le fondamentali discriminanti dell’adempimento del dovere e dello stato di necessità di cui si dirà in seguito.
 In tal modo, disavvenendo a tutte le norme in materia, si perpetua una particolare valutazione dei fatti che, se era spiegabile nei primi dolorosi anni del dopoguerra, oggi non può essere consentita, nel clima della auspicata pacificazione e delle sopite passioni politiche, e nell’austera applicazione del puro diritto.

                                                  TERZO

           CARATTERE DI NON BELLIGERANZA DEI PARTIGIANI
Il giudice di merito ha invece attribuito ai partigiani la qualità di belligeranti, con una peregrina interpretazione delle disposizioni vigenti.
 Sotto il profilo etico deve subito rilevarsi che tale qualifica non può togliere ai partigiani quell’aureola di eroismo di cui molti si circondarono, ben conoscendo che da belligeranti non potevano essere trattati, ed essendo certi che l’avversario – appunto per difetto di tale loro qualità – li avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni dei plotoni di esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano farsi usbergo della qualifica suddetta.
 L’impugnata sentenza si è richiamata alla citata Convenzione di Ginevra, quando si è trattato di qualificare belligeranti i partigiani, dando un’interpretazione arbitraria alle norme surriferite.
 Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano le truppe regolari italiane e che facevano capo ai comandi italiani e alleati, per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario, invece, per risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni partigiane, considerate per se stesse, per quelle che erano e per il modo con cui si manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro vero nome.
 All’uopo si osserva:
1)      I belligeranti devono avere a capo una persona responsabile per i propri subordinati. Non si comprende come il concetto di responsabilità possa conciliarsi con quello di clandestinità, per cui i capi del movimento partigiano, per non farsi riconoscere, per non essere identificati e traditi, e correre l’immediato rischio di morte, si nascondevano sotto pseudonimi, eliminando, per tal modo, quanto meno le responsabilità di ordine immediato. Non si può dalla pratica verificatasi in guerra, per cui talvolta i capi delle forze avversarie si incontravano per venire a patti, dedurre senz’altro una inesistente giuridica responsabilità dei capi partigiani, che era invece accuratamente evitata.
2)      I belligeranti devono avere un segno distintivo fisso, riconoscibile a distanza. Qui la sentenza è del tutto generica, poiché si limita a citare due montanari che furono fucilati perché avevano un fazzoletto verde; essa poi accenna, genericamente, a quanto ebbe a riferire il teste – On. Ezio Moscatelli – e infine dichiara, per scienza propria e contrariamente ad ogni norma processuale, constare al Collegio che le formazioni del Veneto e del Mortirolo portavano i richiesti distintivi di belligeranza. Tali distintivi devono essere fissi e riconoscibili a distanza. Questo doveva dimostrare il giudice di merito e non l’ha fatto.
La nostra legge di guerra, approvata con Regio Decreto l’8 luglio 1938 (n°1415), dispone all’art. 25, in armonia con le convenzioni internazionali, che i legittimi belligeranti debbono indossare un’uniforme od essere muniti di distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza. La sentenza non ha affatto dimostrato – e non lo poteva – che esistesse un distintivo fisso di tal genere, comune a tutti i partigiani e riconoscibile a distanza, sostitutivo, in altri termini, dell’uniforme.
 La lotta clandestina, condotta dai partigiani senza dar quartiere e senza riceverne, imponeva dei metodi e degli accorgimenti che contrastavano coi segni di riconoscimento richiesti. Essi, che pur costituirono il nerbo della resistenza e addussero un apporto fondamentale alla definitiva vittoria delle Forze Armate del legittimo Governo italiano, combatterono una guerra singolare e, per certi aspetti, eroica, sacrificandosi e immolandosi per il bene supremo della Patria. I loro atti di guerra non hanno bisogno di essere legittimati attraverso la qualifica della belligeranza; agirono come agirono, perché tra i reparti fascisti e i reparti partigiani regnavano, quanto più, quanto meno, sistemi di combattimento, di guerriglia, che avevano accantonato, come si vedrà in seguito, le fondamentali norme del Codice militare penale di guerra. La loro opera deve essere apprezzata e riconosciuta, per quanto essi fecero nell’interesse del Paese, salvo la punibilità delle azioni delittuose eventualmente compiute.
3)      I belligeranti devono portare apertamente le armi. La stessa sentenza riconosce che non sempre ciò era possibile, poiché tale requisito deve essere considerato “alla luce della tecnica particolare della guerra partigiana”.
4)      Infine i belligeranti debbono attenersi alle leggi e agli usi di guerra, sul quale punto il giudice di merito non ha fornito che vaghe indicazioni; ma di questo si dirà meglio in seguito.
Pertanto deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari, ma non assoggettati alla legge penale militare per l’espresso disposto dell’articolo 1 del Decreto Legge 6 settembre 1946 N° 93, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono.
 Il Magistrato ha un vasto campo di valutazione, quello concernente il dolo che, in tema di collaborazione propone il quesito seguente: “il giudicabile ha inteso di collaborare all’invasione del tedesco, ha voluto effettivamente tale invasione, o ha ritenuto di agire per una sia pure errata visione del bene e del divenire della Patria ?” Tale quesito, in altri termini ne pone un altro: “è possibile, nonostante la proclamata figura giuridica del ‘tedesco invasore’, ammettere una volontà di collaborazione non rivolta all’evento invasione ma volta, invece, al divenire della Patria ? E’ possibile pensare che l’agente, lungi dal ritenere la sua opera collaboratrice intesa a favorire l’invasione, abbia, in buona fede, creduto che la Repubblica Sociale Italiana si avvalesse delle forze tedesche per fronteggiare lo stesso nemico (gli alleati), ma non certo per agevolare il tedesco nei suoi piani militari e politici ai danni dell’Italia?”
 La storia dirà un giorno – e la cronaca già si sofferma su questo punto – se i gerarchi della Repubblica Sociale Italiana si opposero, con i mezzi a loro disposizione, ai piani del tedesco e se mirarono – sia pure ponendosi contro il Governo legittimo – al solo bene dell’Italia, quale essi lo ritennero.
 Certo è che, nella disamina delle responsabilità occorre avere presenti i proposti quesiti in tema di dolo, al fine di accertare quale fu il movente e quale lo scopo per cui si attuò, nei singoli casi, la collaborazione.
 La Suprema Corte di Cassazione, dopo una prima rigorosa giurisprudenza, che risentiva del clima in cui ebbe a formarsi, ha, sin dal primo semestre del 1947, discusso e ammesso la possibilità, nella soggetta materia, delle discriminanti dell’adempimento del dovere e dello stato di necessità.
 Per lo contrario l’impugnata sentenza ha, con criterio unilaterale, come si è superiormente rilevato, ritenuto che l’organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana era rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, donde nessun valore poteva attribuirsi alle norme, agli ordini, ai vincoli di subordinazione e ai poteri gerarchici che da essa promanavano. All’uopo la sentenza ricorda che, secondo la legge sulle sanzioni contro il Fascismo, deve parlarsi di “sedicente Repubblica Sociale Italiana” e che tale appellativo è sintomatico per la soluzione della questione.
 Deve in proposito rilevarsi che il termine “sedicente” intende contrapporre tale Repubblica allo Stato italiano legittimo; essa fu solo “sedicente” perché non ebbe il pieno riconoscimento internazionale, né si sostituì allo Stato legittimo. Queste locuzioni “Stato di diritto”, “Stato legittimo”, non rispondono pienamente alla terminologia del linguaggio tecnico-giuridico, ma sono utilmente  adottate per significare che non si tratta di uno “Stato di fatto” (altra locuzione praticamente utile), ma dell’unico, vero, legittimo Stato. Con tali argomenti il giudice di merito ha posto il veto e ha risolto ogni premessa per la discussione e l’ammissibilità delle discriminanti parole. E’ mai possibile che, in tal modo, siano annullati i principi posti dal Codice penale e dai Codici penali militari, da ogni legislazione civile, dichiarando in blocco inapplicabili tali cause di esclusione ?
 In definitiva, quando la resistenza e l’insurrezione armata assume, in grande stile, forme di organismo militare vero e proprio, quando non si tratta di una ribellione di pochi, ma di imponenti masse, è ovvio che, nei limiti consentiti e in omaggio alle esigenze dell’umanità i governi di fatto non possono essere trattati senz’altro come governi aventi giurisdizione su un’accolita di ribelli e di fuori legge, che altrimenti, accertata l’originaria e libera volontà di porsi agli ordini della Repubblica Sociale Italiana, risulterebbe imponente il numero dei colpevoli di collaborazionismo, sia pure beneficiati di amnistia: in questa ipotesi la delinquenza politica si sarebbe palesata come generalità di vita vissuta da centinaia di migliaia di uomini e non come eccezione; il che non può essere, perché è l’eccezione che delinque e non la generalità. D’altronde, come può oggi parlarsi più di una accozzaglia di ribelli, quando la Convenzione di Ginevra ha inteso proprio tutelare i movimenti di resistenza organizzata, come sopra detto ?
 Più che dall’essere la Repubblica Sociale Italiana un governo di fatto, le discriminanti in questione traggono origine dalla riconosciuta qualità di belligeranti ai combattenti della Repubblica suddetta. Si comprende che, negata loro tale qualità, ne deriva che essi fossero un’accozzaglia di ribelli, di traditori e di banditi, nonostante che imponente fosse il numero dei reparti, degli ufficiali, dei decorati che non vollero deporre le armi; ammessa, invece, tale qualifica nell’indiscutibile spirito delle Convenzioni internazionali dell’Aja e di Ginevra, il problema delle cause discriminanti può e deve senz’altro essere posto e risolto.
 Lo Stato italiano punisce i suoi sudditi per l’opera collaborazionistica col tedesco invasore, ma nel contempo è innegabile, per le cose dette che occorre tenere presente l’inquadratura militare della Repubblica Sociale Italiana, delle gerarchie costituite, degli ordini emanati e della legge militare colà imperante (quella italiana), né può da un lato riconoscersi la belligeranza e da un altro negarsi l’esistenza di un ordinamento militare fondato sull’obbedienza e sulla disciplina militare.
 …Ciò premesso, per la serena valutazione dei fatti occorre fissare il punto di partenza, che nella sfera dell’ordine psicologico, prende le mosse dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Si è rilevato che, inizialmente, una parte delle Forze Armate italiane non volle accettare l’armistizio e proseguì nelle ostilità contro il nemico della guerra sino allora combattuta, intendendo mantenere fede all’alleato tedesco; le armi italiane non furono inizialmente rivolte verso i propri fratelli, e se scontri inizialmente vi furono tra reparti italiani e reparti italiani, più che altro si verificarono per la fatalità delle circostanze. I reparti che avevano seguito l’ordine del governo legittimo pensarono soprattutto a fronteggiare il tedesco invasore e, purtroppo, avvenne l’inevitabile, per cui si trovarono di fronte figli della stessa grande Madre. In quei giorni nefasti il potere regio era pressoché annullato, e solo formalmente esisteva, come si è dianzi rilevato, la sovranità italiana. L’esercito era disperso e infranto, gli alleati apparivano vittoriosi, tutto cadeva in rovina e grande era il disorientamento delle coscienze. In tale confusione, nella carenza dei poteri costituzionali, il soldato, l’ufficiale italiano fu chiamato a risolvere il tragico quesito, se mantenere fede all’alleato o ubbidire al governo del Re.
 Quando si afferma la tesi della libera determinazione dei singoli nella scelta del fronte, si dimentica la tragica situazione cui si è fatto cenno, si oblia che la guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta, che, comunque, tutti gli italiani, salvo pochi, amarono di sconfinato amore la loro Patria, anche errando; che, se si può parlare di collaborazionismo e di tradimento nel senso giuridico, non si può certo affermare che le centinaia di migliaia di soldati che rimasero al nord a combattere contro gli alleati e le truppe regie, fossero un’accozzaglia di traditori. Accettare e consacrare alla storia una tesi simile, significherebbe degradare la nostra razza, annullate il retaggio di gloria e di valore che ci lasciarono coloro che nella guerra immolarono la vita, creare al cospetto delle altre nazioni una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano.
 Ricostruita così la verità storica degli avvenimenti, non deve da tale ricostruzione trarsi la stolida illazione che non vi siano colpevoli, poiché non v’ha dubbio che debbono essere inesorabilmente colpiti coloro che agirono in malafede, eccedettero in faziosità, compirono azioni delittuose, crudeltà efferate ed innominabili sevizie.
 Tutta l’antecedente esposizione deve servire solo ad obiettare e a serenamente apprezzare i fatti, a non porre senz’altro le premesse di una ribellione, libera nella determinazione e totalitaria nei delittuosi scopi, per cui si giunga inesorabilmente a colpire quanto non è giusto colpire, e si perpetuino i rancori, gli antagonismi, le inimicizie, allontanando la auspicata pacificazione, che non può essere attuata se non nel clima di una tranquillante giustizia. L’impugnata sentenza ha ritenuto che l’errore di fatto in cui possono essere caduti taluni imputati, nel ritenere legittimi gli ordini provenienti dagli organi della Repubblica Sociale Italiana, sia inescusabile in quanto l’illegittimità di tale organismo è elemento di norme penali che quella illegittimità sanciscono. Ciò non è esatto, perché il dolo domina tutti gli estremi del reato, e alla sua ricerca non si sottrae neppure l’estremo della illegittimità.
 Ma v’ha di più !
 La tesi del giudice di merito non può essere accolta. Una volta riconosciuto che la Repubblica Sociale Italiana costituiva un governo di fatto e che i suoi combattenti dovevano essere considerati belligeranti, ne consegue che gli ordini impartiti dai superiori ai loro subordinati dovevano essere eseguiti. Non può far velo alla soluzione del quesito, che è di ordine strettamente giuridico, il carattere insurrezionale del governo suddetto, per trarne l’illazione generica della illegittimità di tali ordini.
La legittimità o l’integrità non è in funzione della insurrezione, della ribellione al potere regio, ma va posta in relazione all’organizzazione politica e militare che si era costituita con il suo ordinamento giuridico, con le sue leggi, con le sue autorità. Se lo sbandamento delle coscienze e la fatalità degli eventi portò molti combattenti nei quadri militari della Repubblica Sociale Italiana, non è esatto parlare a priori di illegittimità degli ordini, e tanto meno escludere discriminanti putative se, per giustificabile errore, i soggetti ritennero di adempiere al loro dovere e di agire nello stato di necessità. (Art. 59, ultimo comma, Codice Penale).””

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