lunedì 3 giugno 2013

LE FOIBE, L’ODIO, GLI SPUTI A BOLOGNA E L’ESODO. DA TITO A MARCO PIRINA.



Con l’inizio del mese di febbraio e, quindi, con l’approssimarsi della ricorrenza della giornata del 10 febbraio, la memoria va inevitabilmente alle vittime della tragedia delle Foibe.  Una pagina dolorosa, che dovrebbe farci riscoprire tutti italiani; eppure, ci divide ancora in rossi e neri. Anzi, divide soltanto coloro i quali sanno cosa sono state le Foibe e l’esodo, visto che da un recente sondaggio è emerso che solo il 43% della popolazione sa di cosa si parla. Colpa dell’inefficienza del sistema scolastico italiano, (che ancora risente dei diktat dei baroni rossi), della sistematica disinformazione operata dai mass-media, (che non hanno ancora cominciato a chiamare fatti e persone con i nomi opportuni), e delle teorie “retributive” e “giustificazioniste” che si diffondono dai salotti buoni del Paese, vera e propria matrice della cultura di Stato, o almeno della sua versione ufficiale.
Ci sono voluti 60 anni per iniziare ad onorare la memoria di quelle migliaia di italiani spinti nelle viscere della terra con quel macabro rituale ormai noto, (legati l’uno all’altro con del filo spinato; un colpo alla testa al primo della fila che, cadendo nel vuoto, trascinava tutti gli altri), e per ricordare la sventura di tutte le altre migliaia che hanno dovuto abbandonare la propria terra d’origine, sottola minaccia delle persecuzioni e della pulizia etnica operata dai comunisti titini, per tornare in Italia. Come sono stati accolti gli esuli al loro rientro in Patria lo sappiamo benissimo:  smistati e confinati negli oltre 100 campi profughi disseminati per tutto il Paese, “dove per molto tempo , ( in alcuni casi perfino dieci anni), vivono in una situazione di totale emergenza, nella più assoluta provvisorietà e promiscuità, attorniati da un clima di avversione o indifferenza” (fonte).  A ben guardare, tuttavia, questo è niente in confronto all’umiliazione che hanno subito durate il viaggio di ritorno nel Bel Paese. Un’accoglienza ostile e feroce organizzata dai comunisti italiani, che qualificavano gli esuli come degli spregevoli fascisti  scappati dal paradiso del socialismo reale jugoslavo, realizzato secondo i dettami del pensatore di Treviri. Ad illustrarci il pensiero dei compagni italiani è proprio “l’Unità”, Organo del Partito Comunista Italiano, con un articolo del 30 novembre 1946, firmato da Piero Montagnani, (Anno XXIII, N. 284. Articolo integrale disponibile qui):  Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi. Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare nei paesi d’origine,perché temono di incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici”. 
Conseguenza di simili parole fu l’operato di una masnada di trinariciuti, raccolti nei cd. “comitati d’accoglienza”  organizzati dal partito, che “all’ arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, accolsero gli esuli con insulti, fischi e sputi e a presero a tutti le impronte digitali”. Ancora: “ a La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell’aprile 1948 arrivò ad affermare ‘in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani’. A Bologna i ferrovieri, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla (Poa) Pontificia Opera Assistenza”. Ironia della sorte: “i profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di criminalità”.  (fonte).
Una situazione inaccettabile, perché aberrante, perché indecente. Un’indecenza accresciuta dalla targa che il Comune di Bologna ha affisso alla stazione di Bologna nel 2007, la quale recita: “Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano Esuli Istriani, Fiumani, Dalmati: italiani costretti ad abbandonare le loro case dalla violenza del regime nazional comunista Jugoslavo ed a pagare, vittime innocenti, il peso e le conseguenze della guerra di aggressione intrapresa dal fascismo. Bologna seppe passare rapidamente ad un atteggiamento di iniziale incomprensione ad un’accoglienza che è nelle sue tradizioni, facendo suoi cittadini molti di quegli Esuli”. Parole gravi, a mio avviso, che offendono la memoria di quelle genti e ne scherniscono la sofferenza, giacché trasformano l’odio politico e il disprezzo per la Patria in una “iniziale incomprensione”, la pulizia etnica in una specie di ritorsione e rivalsa slava, nonché l’operato di qualche buon cristiano bolognese in un’opera di pubblica accoglienza dei profughi.
Niente di più lontano dalla realtà, dato che lo Stato italiano si è ben guardare dall’aiutare quegli italiani, facendoli sentire come sconosciuti in Patria. All’abbandono materiale, si accompagnò poi una forma ancor più grave di oltraggio: la dimenticanza. Per 60 anni, di case espropriate agli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, dell’interdizione dalla vita pubblica, delle torture, delle sevizie e delle uccisioni di massa non abbiamo mai sentito parlare. La loro dolorosa storia, evidentemente, era molto scomoda per la “Repubblica nata dalla Resistenza”, giacché ricordava che, contrariamente a quanto dicevano i “partigiani che scendevano dai monti” , e malgrado le piroette dell’ “ignobil 8 di settembre”, l’Italia quella guerra l’aveva persa e la prova stava proprio nella conferenza di pace di Parigi. Bisognava insabbiare tutto; serviva una congiura del silenzio di proporzioni nazionali perché nessuno potesse sapere. Così, a parlarne erano solo gli ambienti della Destra  e quelli neofascisti; ma guai a fare menzione di quella tragedia sui giornali, nelle scuole, sulle TV o nelle piazze. Si rischiava la scomunica di partito. Bisognava allora affidarsi alla stampa clandestina e alla lettura di libri proibiti, sperando che il tempo facesse crollare la coltre dell’oblio.
Finalmente, questo muro di omertà comincia a cadere e le malefatte dei comunisti slavi, (coadiuvati dall'operato dei compagni italiani), iniziano a porsi all’attenzione della gente comune. Non a caso; bensì solo grazie all’opera di alcuni pionieri della storia, che hanno sfidato la sorte, il veto e le “scomuniche laiche”, pur di far sapere agli italiani cosa avevano vissuto tanti loro compatrioti di origine fiumana, istriana e dalmata. Mi riferisco ai vari Petacco, Parlato, Oliva, Rumici e tanti altri. In particolare, a Marco Pirina, storico friulano da poco scomparso, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente. Uno che ha dedicato gran parte della sua vita all’approfondimento di queste vicende. Un uomo gentile e determinato che ha riportato in Italia, a costo persino della propria incolumità, migliaia di documenti custoditi negli archivi slavi, poi raccolti in diversi volumi, (disponibili sul sito http://www.silentesloquimur.it/sito1/libri.htm). Grazie a questo eroe dei tempi moderni, (lo dico senza retorica e senza esaltazione), abbiamo scoperto  che il governo italiano pagava con 3 milioni di lire al mese le armate jugoslave perché arrivassero a Trieste prima degli Alleati. Ma non erano i soli quattrini italiani che finivano in mano slava. C’erano, infatti, i denari che Tito riceveva mensilmente, fino a tutti gli anni ’60, a titolo di mantenimento di alcuni prigionieri italiani, perché non ritornassero, dato che la situazione politica era cambiata. Ma non è tutto: scavando tra le 29.149 pensioni che l’INPS paga nella ex Jugoslavia sin dal 1947, sono saltati fuori anche i nomi di alcuni personaggi che sarebbero gli esecutori materiali degli infoibamenti (fonte).  Vi elenco soltanto i nomi, rimandandovi al sito di riferimento per leggere con i vostri occhi di quali fatti si siano macchiati questi signori, mantenuti con pensioni italiane con tanto di diritto alla reversibilità del 100%:
  • ·         Cino Raner
  • ·         Nerino Gobbo
  • ·         Franco Pregelj
  • ·         Giorgio Sfiligoi
  • ·         Oscar Piskulic
  • ·         Ivan Motika
  • ·         Giuseppe Osgnac
  • ·         Guido Climich
  • ·         Giovanni Semes
  • ·         Mario Toffanin
  • ·         Alojz Hrovat
  • ·         Avijanka Margitic
Una cosa, ancora, vorrei farvi notare: la chiara origine italiana di questi nomi e cognomi. Un dato che dimostra ulteriormente l’italianità di quelle terre.  Un marchio italico che è confermato dalla storia, dal dominio di Venezia in primis, dai censimenti, dai nomi e dalla struttura delle città, (come ad esempio Grisignana, che anche dal censimento del 2001 risulta a maggioranza italiana), e persino dalle confessioni Milovan Gilas,  politico, antifascista partigiano e militante comunista jugoslavo. Costui, in un intervista rilasciata a Panorama nel 1991, disse: “ Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria a organizzare la propaganda antitaliana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Ovviamente non era vero. O meglio lo era solo in parte, perché in realtà gli italiani erano la maggioranza nei centri abitati, anche se non nei villaggi. Ma bisognava indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto”.
Una vicenda che si commenta da sola. Una tragedia che ha bisogno di essere ricordata in tutta la sua pienezza, non solo il 10 febbraio, ma tutto l’anno. Un compito che, vista la provenienza dei signori che ci governano, (molto vicini alla sinistra italiana, notoriamente universo satellite dell’Unione Sovietica), può aspettare soltanto a noi. Dobbiamo esserne all’altezza. Ce lo impongono circa 30.000 scomparsi e più di 300.000 esuli, tutti compatrioti. Dal primo all’ultimo, sia chiaro!
Roberto Marzola.

Nessun commento:

Posta un commento

Commenti dai camerati.