lunedì 3 giugno 2013

QUESTA "RESISTENZA"

Vi propongo un altro articolo dell'ottimo Filippo Giannini che, ancora una volta, cambia i connotati alla Resistenza. Non con i pugni o con le percosse, certo, bensì con la penna; ma la forza è la stessa e l'effetto devastante. Attendo solo il momento in cui queste cose cominceranno ad essere insegnate nelle scuole, quando cioè l'ideologia militante lascerà il posto alla vera storia. Sarebbe davvero un giorno nuovo per questa martoriata Italia.

Roberto Marzola.


ANCHE IN QUESTO CASO, CHI PUO’ MI SMENTISCA
ALLORA, COSA E’ STATA QUESTA RESISTENZA?
di Filippo Giannini
   Nel verbale della Guardia Nazionale Repubblicana (Archivio Centrale dello Stato, Fondo Gnr, c. 36, f.VII, sf.8. si legge: <Oggetto: Attentato terroristico. Milano, lì 8/8/1944. Ore 8,15 di oggi in Viale Abruzzi all’altezza dello stabile segnato con il N° 77 scoppiavano due ordigni applicati ad opera d’ignoti all’autocarro germanico con rimorchio targa W.M. 111092 lì sostante dalle ore 3 di stamane e affidato all’autiere caporal Maggiore Kuhn Heinz, che dormiva nella cabina di guida>.   Nessuno ha rivendicato quell’attentato, nessuno ha indicato l’autore, nessuno ha saputo spiegare le motivazioni. Rimane il fatto condannabile in quanto diretto contro la popolazione civile, persone che erano attorno all’autocarro tedesco carico di bidoni di latte, distribuito gratuitamente. È una storia che merita di essere raccontata. Il fatto è avvenuto a Milano, ma poteva accadere in qualsiasi altra città del Centro-Nord.
Principalmente dopo le sconfitte dell’Asse in Russia e in Africa del nord, i capi Alleati imposero l’ordine indicato come Moral Bomber, accompagnato da questo incitamento di Winston Churchill: <Mi sembra che il momento sia venuto: bombardare le città dell’Asse così da incrementare il terrore, in modo che altre ribellioni possano verificarsi (…)>. Di conseguenza gli aerei alleati, ormai padroni degli spazi aerei, possono sciamare indisturbati, mitragliando qualunque cosi si muova, perfino il singolo ciclista. L’afflusso di viveri dalla campagna si riduce quasi a zero e nelle città si muore letteralmente di fame. E, di conseguenza, la crisi colpisce soprattutto i bambini e, particolarmente i neonati; le loro madri hanno poco latte. Spinto da impulso personale, un anziano sottufficiale della Wehrmacht, quando può, si muove con un piccolo camion fa il giro delle campagne a procurare del latte e, tornato in città, parcheggia il mezzo sempre nella stessa località, a Viale Abruzzi il sottufficiale tedesco provvede alla distribuzione del prezioso alimento. Alle nove una mano misteriosa depone sul sedile dell’automezzo una bomba. Riportiamo quanto ha scritto lo storico Franco Bandini su Il Giornale del 1 settembre 1996: <Nell’esplosione e poche ore dopo muoiono sei bimbi, una donna che non sarà mai identificata e due giovani padri. Tra i 13 feriti gravi altri sei tra  bambini, madri e padri, spireranno il giorno dopo, portando il bilancio finale a 15 morti, sette feriti gravi e qualche decina di leggeri. L’unico che se la cava è il sottufficiale tedesco, per cui la strage rimane “affare italiano”>. “Affare italiano”, ma non tutti sono d’accordo. Questo di Viale Abruzzi non è che uno dei tanti attentati e ciò rende il comando germanico furioso. Uno degli addetti al comando era il capitano Theodor Saevecke che ordina una rappresaglia nella misura di uno per uno. A questa si oppongono il cardinale Schuster, il prefetto Pietro Barini che si dimette. Mussolini invia una protesta all’ambasciatore tedesco presso la Rsi, Rudolf Rahn, accompagnandola con queste parole: <(questi metodi) sono contrari ai sentimenti degli italiani e ne offendono la naturale mitezza>. Niente da fare! Theodor Saevecke pretende la rappresaglia e compilò lui stesso la lista, come testimoniato da Elena Morgante, impiegata nell’ufficio delle SS, cui fu ordinato di battere a macchina i nomi dei 15 ostaggi, imprigionati nelle carceri di Milano. Ecco i nomi: Gian Antonio Bravin (28 febbraio 1908), partigiano del varesotto e capo del III gruppo GAP (Gruppo Azione Partigiana); Giulio Casiraghi (17 ottobre 1899) incaricato ai rifornimenti di armi alle formazioni partigiane; Renzo del Riccio (11 settembre 1923) partigiano delle formazioni Matteotti operante nel comasco; Andrea Esposito (26 ottobre 1898) partigiano della 113° brigata Garibaldi; Domenico Fiorani (24 gennaio 1913) appartenente alle brigate Matteotti; Tullio Galimberti (31 agosto 1922) membro della 3° brigata d’assalto Garibaldi GAP; Emilio Mastrodomenico (30 novembre 1922) capo dei GAP; Angelo Poletti (20 giugno 1912) partigiano in Val d’Ossola, appartenente alla 45° brigata Matteotti; Salvatore Principato (29 aprile 1892) membro della 33° brigata Matteotti; Andrea Ragni (5 ottobre 1921) partigiano formazione Garibaldi, Eraldo Soncini (4 aprile 1901) appartenente alla 107° brigata Garibaldi; Libero Temolo (31 ottobre 1906 partigiano delle SAP: Vitale Vertemati (26 marzo 1918) partigiano della Garibaldi GAP; Umberto Fogagnolo (2 ottobre 1911) rappresentante del Partito d’Azione; Vittorio Gasparini (30 luglio 1913) incaricato della trasmissione radio messaggi clandestini. Come si vede dall’elenco 13 erano partigiani riconosciuti e i due ultimi dell’elenco, anche se coinvolti nella Resistenza, non risultano partigiani. Così il 10 agosto successivo i quindici ostaggi vennero fucilati dai militi della legione Ettore Muti, eseguendo l’ordine di Saevecke il quale, affidando la fucilazione ad una formazione italiana intendeva rimarcare che era un affare italiano, ignorando le proteste di Mussolini, di Schuster e del prefetto italiano. Ma la spirale della pazzia continua con l’ordine dato dal CLNAI alle formazioni partigiane di montagna di procedere, quale rappresaglia alla rappresaglia, alla fucilazione di 30 militi della Rsi e di 15 tedeschi prigionieri, appunto, dei partigiani.
Quale era la figura e la legittimità del partigiano?
Da Diritto Istituzionale, pagg. 583-584: <Sulla base delle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 e in particolare della III Convenzione di Ginevra del 1949, si possono classificare quattro categorie di legittimi combattenti (…). I militari delle Forze armate regolari di uno Stato belligerante, purché 1) indossino una uniforme conosciuta dal nemico; 2) portino apertamente le armi; 3) dipendano da ufficiali responsabili; 4) dimostrino di rispettare le leggi e gli usi di guerra>. È facile dimostrare che il partigiano non rispettava alcuna di queste norme imposte dalle Convenzioni Internazionali del tempo; quindi il partigiano era un illegittimo combattente.
Cosa prevedeva il Diritto Internazionale per l’illegittimo combattente? Pag. 584, art. 4: <Gli “illegittimi combattenti” vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena capitale. Nella guerra terrestre i franchi tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura; lo stesso dicasi per i sabotatori>.
A convalidare quanto disposto dal Diritto Internazionale, c’è una sentenza del 26/4/1954, quindi ampiamente dopo la fine delle ostilità, emessa dal TRIBUNALE MILITARE, sentenza che mandò in bestia i più alti esponenti dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), essa attesta: <(…). Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la sovranità di fatto, o meglio l’autorità del potere fu, nella parte dell’Italia ove risiedeva il Governo legittimo, esercitata dalle Potenze alleate occupanti. Non poteva essere altrimenti, dal momento che, durante il regime di armistizio, permaneva lo stato di guerra e l’occupante era sempre giuridicamente “il nemico” (per chiarezza: per “nemico” si intendono gli “angloamericani”, nda). Basti considerare che tutte le leggi e tutti i decreti ricevevano piena forza ed effetto di legge a seguito di ordini degli Alleati. Pertanto il Governo del Re era un Governo che esercitava il suo potere “sub-condicione”, nei limiti assegnati dal comando degli eserciti nemici (…). Indubbiamente pressoché immutato era rimasto l’ordinamento giuridico esistente nella Repubblica Sociale Italiana; gli stessi codici, le stesse leggi venivano applicati dagli organi del potere esecutivo della Magistratura (…). Tale formale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale Italiana che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l’autorizzazione dell’alleato tedesco>. E cosa prevedeva la suddetta sentenza al riguardo delle forze della Rsi e dei partigiani? Essa attestava: <Si dimentica che anche le Forze Armate alle dipendenze di Mussolini e di Rodolfo Graziani occupavano il territorio suddetto. Che l’Ordinanza Kesserling, in data 11 settembre 1943, che assoggettava il territorio italiano alle leggi tedesche, cessò di avere efficacia proprio con il 23 settembre 1943, quando, se pur non ancora proclamata la Repubblica Sociale Italiana (che nacque il 25 novembre 1943), esisteva già il così detto Stato Fascista Repubblicano>. E di seguito: <Pertanto deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari, ma non assoggettati alla legge penale militare, per lo espresso disposto dell’articolo 1 del decreto legge 6 settembre 1946 n° 93, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme del diritto internazionale cumulativamnente richiedono>.
…e le rappresaglie? Sempre dal Diritto Internazionale, pag. 792, art. 2) <(…). La rappresaglia si qualifica innanzitutto come “atto legittimo” (…). La rappresaglia, condotta obiettivamente illecita, diventa, per le particolari circostanze in cui viene attuata, condotta lecita (…)>.
Prima considerazione – che ritengo assolutamente superflua – il partigiano era un illegittimo combattente, ma la sua azione poteva condurre alla rappresaglia, di contro il combattente della Repubblica Sociale Italiana era un legittimo combattente in quanto, al contrario del partigiano, rispondeva, per essere tale, a tutte le condizioni sopra riportate. Ma le situazioni che producevano la lotta clandestina hanno condotto a situazioni ancora più gravi, situazioni che sono molto, ma molto poco note al grande pubblico. Infatti: quali erano le finalità della lotta clandestina o partigiana, comunque la vogliamo chiamare?
Diamo ora uno sguardo come i partigiani (specialmente quelli comunisti che erano la stragrande maggioranza) seppero approfittare e sfruttare l’ignobile diritto della rappresaglia. Il democristiano Zaccagnini lasciò scritto: <La rappresaglia che veniva compiuta era un mezzo per suscitare maggiore spirito di rivolta antinazista e antifascista>. E ancora più specificamente l’ex fascistissimo,  poi super antifascista e capo partigiano Giorgio Bocca, ci spiega il perché degli attentati: <Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce>. Cos’altro c’è da aggiungere? Vi ricordate le lacrimucce che versavano i vari esponenti delle formazioni partigiane quando andavano a commemorare le stragi nazifasciste alle Cave Ardeatine, a Marzabotto, a Piazzale Loreto o ovunque fossero avvenute queste orribili mattanze? Quei martiri (reali) furono uccisi per volontà dei capi del CLN e cito alcuni nomi dei responsabili di queste vigliaccate: Sandro Pertini, Luigi Longo, Palmiro Togliatti e tanti altri. Questi signori cercarono, pretesero e ottennero le rappresaglie così da far dei tanti innocenti assassinati, le finalità per le loro mire politiche. Questo spiega il perché tanti autori di attentati non si presentarono per salvare la vita di innocenti ostaggi: non fu per vigliaccheria, come molti li accusarono, ma semplicemente perché se lo avessero fatto, l’agognata rappresaglia non si sarebbe verificata.
Per completare la conoscenza del partigiano, esaminiamo anche il loro stile di lotta. Dal libro 7° GAP di Mario De Micheli – Edizioni Cultura Sociale, Roma 1954: <I Gap (Gruppi d’Azione Patriottica) dovevano essere gli arditi della guerra di liberazione, soldati senza divisa (…). Essi dovevano combattere in mezzo all’avversario, mescolandosi ad esso, conoscerne le abitudini e colpirlo quando meno se lo aspettava (…). I complici del fascismo e del tedesco non avrebbero più dovuto trascorrere i loro giorni indisturbati in quiete e tranquillità; avrebbero, invece dovuto vivere d’ansia, guardandosi continuamente attorno, trasalendo se qualcuno camminava alle loro spalle. Portare la morte a casa del nemico era insomma la direttiva con cui sorgevano i Gap (…)>. Dopo questo saggio di lealtà, di coraggio e di eroismo, leggiamo uno stralcio di cosa ha scritto Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny: <Alle spalle, beninteso, perché non si deve affrontare il fascista a viso aperto: egli non lo merita, egli deve essere attaccato con le medesime precauzioni con le quali un uomo deve procedere con un animale>.
C’è altro da aggiungere? Allora festeggiamo la Resistenza così come ci è stata tramandata.

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