giovedì 29 maggio 2014

Francesco Cecchin, vittima dell’”antifascismo” da 34 anni senza giustizia


ANCHE DOPO 30 ANNI NOI NON DIMENTICHIAMO.

Negli anni ’70 si poteva morire perché si indossavano i “camperos”, stivali texani di moda soprattutto tra i giovani di destra, o perché ci si trovava in un bar frequentato abitualmente da “fasci”. Si moriva per le proprie idee politiche, o anche solo per un manifesto. Francesco Cecchin è una delle troppe vittime della campagna d’odio della sinistra extraparlamentare negli anni in cui “uccidere un fascista non era reato”, come Sergio Ramelli a Milano o i fratelli Mattei a Roma. E’ soprattutto nella capitale che la guerra tra i “rossi” e i “neri” diventa una questione di egemonia territoriale, di “conquista dei quartieri”.
Francesco Cecchin era militante del Fronte della Gioventù, frequentava la sezione di via Migiurtina, la zona più rossa del cosiddetto “quartiere Africano”, ossia un piccolo avamposto di sinistra all’interno del quartiere Trieste, che invece è di destra. Il quartiere Trieste-Salario è quindi negli anni ’70 uno dei campi di battaglia più caldi di Roma: la sezione Msi di via Migiurtina appare come provocazione in una porzione di territorio che i militanti del Pci consideravano “cosa loro”, e diventa ben presto un bersaglio fino ad essere costretta a chiudere. Francesco, diciassettenne, è figlio di Antonio Cecchin, che era stato volontario in Somalia e imprigionato dagli inglesi prima di essere consegnato agli americani, venendo trasferito in cinque campi di prigionia diversi negli Usa.
La sera del 28 maggio 1979 Francesco Cecchin si trova in piazza Vescovio con altri tre ragazzi del Fronte della Gioventù. Scoppia una lite per un manifesto con alcuni militanti del Pci. I “compagni” sono molti di più, una ventina. Contro quattro. Francesco Cecchin viene minacciato ma non si fa intimidire. Qualche ora dopo gli costerà caro.
Sono le dieci di sera quando Francesco esce di casa con sua sorella di due anni più grande, Maria Carla. In piazza Vescovio bar ed edicola sono chiusi, tutto è buio. Dopo pochi minuti si avvicina una Fiat 850 bianca, con a bordo quattro persone. Si sente una voce: “E’ lui, prendetelo!”, due persone scendono e rincorrono il giovane missino, che intuisce il pericolo, scappa via e dice alla sorella di chiamare aiuto. Maria Carla Cecchin urla, cerca di seguire il fratello, ma è superata anche dagli inseguitori: le tre figure scompaiono in via Montebuono. Ed è lì che viene ritrovato il corpo di Francesco: all’altezza del civico 5, in un terrazzino situato sotto il livello del marciapiede di quasi cinque metri.
Francesco Cecchin è stato inseguito dai suoi aguzzini, ha scavalcato il cancelletto di via Montebuono 5 (dove abita un suo amico) ma è stato raggiunto e picchiato. Ha provato a difendersi con un mazzo di chiavi, ma dopo aver perso i sensi è stato buttato giù dal muretto.
Viene ritrovato con il mazzo di chiavi in una mano (una, tra le nocche, è piegata) e un pacchetto di sigarette nell’altra, perde sangue da naso e tempia, ha gli occhi gonfi, è appoggiato di schiena e con la testa sopra un lucernario.
Testimoni raccontano di aver sentito prima un vociare e poi un tonfo. La dinamica è chiara, ma la solita disinformazione militante cerca di far passare la versione che il ragazzo si sia buttato da solo da quel muretto, forse per paura.
Cecchin viene ritrovato ancora vivo, ma morirà in ospedale dopo 19 giorni di agonia: il 16 giugno 1979. Soltanto un giorno prima, i medici avevano comunicato alla famiglia un netto miglioramento delle condizioni. Davvero strano, soprattutto perché Francesco Cecchin avrebbe potuto riconoscere e denunciare i suoi aggressori.
I quali, invece, non saranno mai trovati.
In fase di indagini emergono due nomi, che hanno in comune una sigla che sarà riportata anche in un dossier preparato dal Fronte della Gioventù: S.M.
Sono Sante Moretti e Stefano Marozza. Il primo, ex pugile all’epoca quarantaseienne, durante la rissa per i manifesti in piazza Vescovio, qualche ora prima dell’aggressione, minaccia Cecchin con queste parole: “Tu stai attento. Perché se poi mi incazzo ti potresti fare male. Vi abbiamo fatto chiudere la sezione di via Migiurtina, vi faremo chiudere anche quella di via Somalia”. Il secondo è proprietario di una 850 bianca, era presente alla rissa di piazza Vescovio e sostiene di essere andato a “vedere il film “Il Vizietto” al cinema “Ariel” di Monteverde con un amico” la sera del 28 maggio. Un alibi che viene smentito: quel film non era in programmazione in quel cinema, quella sera. E pure l’amico lo smentisce.
Il 1 luglio 1979 Stefano Marozza viene arrestato per concorso in omicidio, ma il 21 novembre le perizie disposte dal pm Giorgio Santacroce rivelano che “Sul cadavere del giovane non sono state trovate lesioni riferibili con certezza a percosse e/o colluttazione”.
Dunque, secondo i tre periti Alvaro Marchiori, Gaetano Secca e Giancarlo Ronchi, non c’è nulla che possa dimostrare che Francesco Cecchin sia stato picchiato e poi gettato dal muretto contro la sua volontà.
Stefano Marozza non viene riconosciuto neppure dalla sorella di Francesco, Maria Carla Cecchin, la quale peraltro non si ricordava facce ma solo ombre, a causa del buio e dello spavento, e viene assolto con formula piena il 24 gennaio 1981.
Secondo la Corte, però, la disattenzione degli inquirenti durante le indagini avrebbe addirittura sfiorato il dolo.
Non c’è stata nessuna caduta accidentale, come gridato dagli “innocentisti”, bensì “è opinione della Corte che nel caso di specie, non di omicidio preterintenzionale si sia trattato, ma di vero e proprio omicidio volontario.” E, quanto a Stefano Marozza, pur prosciolto con formula piena “non potrà mai scrollarsi completamente di dosso i dubbi e i sospetti che aleggiano intorno alla sua persona”.
L’avvocato della famiglia Cecchin commenterà giustamente: “Con questi verdetti, di solito si motiva una condanna, non un’assoluzione”.
O, quantomeno, un’assoluzione per insufficienza di prove e non con formula piena.
Ma tant’è: 34 anni dopo sappiamo che Francesco Cecchin è stato ucciso, ma non da chi. E’ solo uno dei tanti martiri dell’”antifascismo” senza giustizia.
Francesco Mancinelli, per la sua canzone “Generazione ’78″, scriverà questi versi dedicati a Cecchin:

E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano modo per morire
Braccia tese ai funerali e un coro contro il vento “Oggi è morto un camerata ne rinascono altri cento”
E il silenzio di un’accusa che rimbalza su ogni muro
Questa volta pagheranno te lo giuro.


http://www.qelsi.it 
 

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