venerdì 29 agosto 2014

Un comunista in camicia nera.


Bombacci, longa manus di Lenin in Italia, disse a Mussolini:

"Presto tutte le fabbriche saranno socializzate e sarà esaminato anche il problema della terra e della casa perché tutti i lavoratori devono possedere la loro terra e la loro casa…"
Nicola Bombacci



Nicola Bombacci, longa manus di Lenin in Italia e tra i fondatori del Pci, fosse amico per la pelle di Benito Mussolini, al punto tale da farsi uccidere insieme con lui a Dongo .

Nel 1927 Bombacci fu espulso dal Partito Comunista reo di aver paragonato la rivoluzione fascista a quella comunista, tale decisione, però, non fu vista di buon occhio dall’Internazionale; è da questa data che inizia la parabola politica discendente del Lenin di Romagna.

 Il Lenin di Romagna partecipò attivamente anche alla stesura dei 18 punti di Verona che si prefiggeva la R.S.I e al traguardo inseguito da una vita della socializzazione delle imprese e dei diritti dei lavoratori.

Nicola Bombacci nacque a Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, il 24 ottobre 1879. Dopo una breve esperienza in seminario, divenne insegnante elementare. Fin da inizio secolo fu attivo nel mondo sindacale operando tra Crema, Piacenza e Cesena e venendo eletto nel 1911 membro del Consiglio Nazionale della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL).
A Modena, durante il primo conflitto mondiale, ebbe il suo trampolino di lancio, divenendo il leader indiscusso del socialismo locale, tanto che lo stesso Mussolini lo definì il Kaiser di Modena.
Tra le guerre balcaniche e la rivoluzione russa fu contemporaneamente segretario della Camera del Lavoro, segretario della Federazione socialista provinciale modenese e direttore del periodico socialista “Il Domani“.
Nel luglio 1917, Bombacci venne nominato membro della Direzione del Partito Socialista Italiano (PSI), affiancando il segretario Costantino Lazzari nella redazione della famose circolari dirette alle sezioni del partito e il direttore del periodico socialista Giacinto Menotti Serrati nell’opera di conquista del movimento operaio da parte della corrente socialista massimalista. Nel 1918, con gli arresti di Lazzari nel gennaio e di Serrati nel maggio, rimase praticamente solo alla guida del Partito.
Fautore di una politica fortemente antiriformista, centralizzò e verticalizzò tutto il socialismo italiano: le federazioni provinciali del partito e il Gruppo Parlamentare Socialista (GPS) diventarono dipendenti direttamente dalla Direzione del PSI, alla quale si collegavano anche le organizzazioni sindacali e cooperativistiche rosse.
Nel 1919 redasse con Serrati, Gennari e Salvadori il programma della frazione massimalista, vincente al XVI Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano (Bologna, 5-8 ottobre 1919): eletto segretario del Partito (11 ottobre 1919) e, il mese seguente, nelle prime elezioni politiche generali del dopoguerra (16 novembre 1919) deputato nella circoscrizione di Bologna con oltre centomila voti fu una delle figure più potenti e visibili del socialismo massimalista nel biennio rosso.
Fu presto estromesso dai centri direttivi comunisti, cominciando dal CC del Partito. La polemica arrivò fino alle alte sfere sovietiche nel novembre 1923, quando il Comitato Esecutivo del PCd’I ne decise unilateralmente l’espulsione senza consultare l’Internazionale Comunista. Si accusava Bombacci, allora segretario del Gruppo Parlamentare Comunista, di aver fatto riferimento ad una possibile unione delle due rivoluzioni – quella bolscevica e quella fascista – in un intervento alla Camera dei Deputati il 30 novembre 1923.
Semplicemente, su indicazione dell’ambasciatore russo in Italia, Jordanskij, aveva prospettato un trattato economico italo-russo, fortemente voluto dal Cremlino. Nel gennaio del 1924, Bombacci fu dunque richiamato a Mosca, dove rappresentò la delegazione italiana ai funerali di Lenin: Grigorij Zinov’ev ne decise il reintegro nel PCd’I, in quei mesi decimato dalla campagna di arresti decretata dal governo fascista di Mussolini.
Al suo ritorno in Italia, però, Bombacci iniziò a lavorare all’Ambasciata russa a Roma, al servizio del commercio e della diplomazia sovietica. Nel 1925 fondò la rivista “L’Italo-Russa“, poi una omonima società di import-export, che ebbero entrambe vita breve. Il suo distacco dal Partito era ormai palese: nel 1927 i dirigenti comunisti in esilio ne decretarono l’espulsione definitiva.
Negli “anni del silenzio“, Bombacci continuò a vivere a Roma con la famiglia. La collaborazione con l’Ambasciata sovietica sembra che non si prolungo più in là del 1930. Le necessità economiche e le gravi condizioni di salute del figlio Wladimiro, che abbisognava di costose cure, lo indussero a chiedere aiuto a gerarchi del regime, che conosceva da tempo – Leandro Arpinati, Dino Grandi, Edmondo Rossoni -, e poi allo stesso Benito Mussolini, con il quale aveva avuto rapporti politici nel periodo giolittiano. Il Duce gli concesse alcune sovvenzioni in denaro per le cure del figlio e gli trovò un impiego all’Istituto di Cinematografia Educativa della Società delle Nazioni a Roma.
Dal 1933 Bombacci si avvicinò poco a poco sempre più chiaramente al fascismo, tanto che con il 1935 si può parlare di una vera e propria adesione. Mussolini, all’inizio del 1936, gli concesse di fondare “La Verità“, una rivista politica allineata sulle posizioni del regime, che, a parte alcune interruzioni dovute all’opposizione del fascismo intransigente dei Farinacci e degli Starace, durò fino al luglio del 1943. Al progetto collaborarono svariati altri ex-socialisti come Alberto e Mario Malatesta, Ezio Riboldi, Walter Mocchi, Giovanni e Renato Bitelli ed Angelo Scucchia.
Bombacci non ebbe mai la tessera del Partito Nazionale Fascista (PNF), per quanto la richiese ripetutamente al capo del fascismo, al quale scriveva sovente. Dopo la caduta del regime fascista il 25 luglio 1943 e, in settembre, la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e la creazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), Bombacci decise volontariamente di andare a Salò, dove divenne una specie di consigliere di Mussolini.
Proprio a Bombacci si attribuisce il progetto di “socializzazione“, notevolmente propagandato dal fascismo repubblicano ed approvato dal consiglio dei ministri della RSI nel febbraio del 1944. Nella stesura di tale opera Bombacci si ispirò alle teorie dell’ anarchico russo Nestor Ivanovyč Machno.
(da Wikipedia)
Il 15 marzo 1945, nel trionfale comizio di Piazza De Ferrari a Genova, disse:
Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno. Il socialismo non lo realizzò Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito.


 

Nessun commento:

Posta un commento

Commenti dai camerati.