venerdì 31 gennaio 2014

Onore al camerata. Giorgio Almirante.

 
 
Giorgio Almirante nasce a Salsomaggiore, in provincia di Parma, il 27 giugno 1914. Il padre, attore, direttore di scena di Eleonora Duse e di Ruggero Ruggeri e poi regista del cinema muto, apparteneva ad una famiglia di attori e di patrioti, con ascendenti appartenenti all'alta nobiltà di Napoli. Il piccolo Giorgio visse quindi i suoi primi anni seguendo la famiglia da una città all'altra, fino a che gli Almirante si stabilirono a Torino, dove intraprese studi regolari. Successivamente, si trasferì con la famiglia a Roma, dove si iscrisse all'università nella Facoltà di Lettere. Parallelamente agli studi, intraprese la carriera di cronista praticante presso "Il Tevere", quotidiano fascista diretto all'epoca da Telesio Interlandi. Vi rimase fino al luglio 1943, ormai trentenne. Conseguita la laurea in lettere e l'abilitazione all'insegnamento di materie classiche, dopo sei anni di praticantato gratuito, viene nominato da Interlandi caporedattore e, poco dopo, anche segretario di redazione della nuova rivista "La Difesa della razza", inizialmente diretta dallo steso Interlandi. Cresciuto dunque in piena epoca fascista, come gran parte dei suoi coetanei militò nelle organizzazioni giovanili fasciste, ma durante il regime non andò oltre la carica di fiduciario del GUF della facoltà di lettere dell'università di Roma. Quasi cinquant'anni dopo, avrebbe ammesso di essere stato allora razzista e antisemita in buona fede e per motivi politici (come molti giornalisti italiani poi passati all'antifascismo); la collaborazione alla "Difesa della razza" fu, di tutta la sua vita, l'unica esperienza che sconfessò, completamente, pur conservando un ottimo ricordo di Interlandi. Inoltre, è noto che Almirante, durante il periodo della Repubblica di Salò, salvò dalla deportazione in Germania un suo amico ebreo e la famiglia di questo, nascondendoli nella foresteria del ministero della Cultura popolare a Salò. Intanto, scoppia la seconda guerra mondiale, evento che vedrà Almirante coinvolto anima e corpo. Infatti, essendo stato richiamato alle armi come sottotenente di complemento di fanteria, viene mandato in Sardegna a comandare un plotone di guardia alla costa, un compito non certo esaltante. Almirante, invece, desiderava partecipare attivamente alle operazioni di guerra; si offrì dunque volontario per il fronte dell'Africa settentrionale, e a tal fine si fece nominare corrispondente di guerra. Raggiunse Bengasi alla fine dello stesso mese di giugno dove visse le alterne fasi della guerra fino a tutto il 1941, ottenendo la croce di guerra al valor militare. Tornato poi a Roma, riprese il suo posto di caporedattore de "Il Tevere". La mattina del 26 luglio 1943, però, Mussolini cade. Come politico sembra ormai del tutto finito. Numerose sono le defezioni fra i fascisti, molti dei quali passano improvvisamente al fronte democratico, comportamento che invece Almirante rifiuta. Rimane dunque improvvisamente solo: anche il suo ex direttore, Interlandi, viene arrestato come "fascista pericoloso".
Ai primi di agosto Almirante risponde ad una nuova chiamata alle armi, come tenente, presentandosi a Frosinone presso il suo vecchio reggimento di prima nomina. La viene sorpreso, l'8 settembre, dalla notizia dell'armistizio; il giorno dopo, trovandosi a comandare provvisoriamente una compagnia distaccata, viene abbandonato da superiori e sottoposti e preso dai tedeschi, dai quali ottiene però di arrendersi con l'onore delle armi e di essere lasciato libero; raggiunge allora il colonnello comandante dell'ormai dissolto reggimento e, una volta ottenuta una formale licenza, torna Roma a piedi. Dopo il discorso di Mussolini alla radio di Monaco che invitava ad un ricompattamento dei fascisti e quello del maresciallo Graziani al teatro Adriano di Roma, compie la sua scelta di campo: si arruola nella costituenda Guardia Nazionale Repubblicana con il grado di capomanipolo. Dopo pochi giorni di lavoro a Venezia, Almirante passa alla sede di Salò dove svolge varie mansioni: prima Capo di Gabinetto del Ministro della Cultura Popolare poi Attendente di Mussolini. La sua attività di funzionario ministeriale viene interrotta tra il novembre 1944 e il gennaio 1945 dalla sua partecipazione, come tenente comandante del reparto del Ministero della Cultura Popolare nella Brigata Nera Autonoma Ministeriale, alla campagna antipartigiana di Val d'Ossola, durante la quale però egli e i suoi uomini non hanno mai occasione di partecipare ai combattimenti. Il 25 aprile 1945 Almirante, che aveva seguito Mussolini e il ministro Mezzasoma a Milano, entra in clandestinità, a causa delle rovinosa caduta del fascismo. Rimane in questa condizione per più di un anno e mezzo. Uscito dalla clandestinità nel settembre 1946, si reca a Roma e da lì intraprende un'intensa attività politica, partecipando alla fondazione di un gruppo di reduci fascisti repubblicani, il "Movimento Italiano di Unita Sociale" (MIUS). Il 26 dicembre 1946, invece, Almirante partecipa alla riunione costitutiva del "Movimento Sociale Italiano" (MSI), che si svolge a Roma nello studio dell'assicuratore Arturo Michelini. Contrariamente a quanto si crede, infatti, Almirante non è stato da subito segretario del MSI, compito che per diversi anni toccò a Nichelini. Nel 1948 Almirante conduce, per le elezioni politiche del 18 aprile, una durissima campagna elettorale; il MSI ottenne il 2 per cento dei voti ed entrò in Parlamento con sei deputati, tra i quali lo stesso Almirante, e un senatore. Almirante in quella prima fase rappresentava la continuità ideale con il fascismo repubblicano. Fu confermato segretario del MSI dopo i primi due congressi nazionali del partito (Napoli, giugno 1948; Roma, giugno-luglio 1949).
Nel corso delle successive legislature della Repubblica Almirante si distinse in battaglie ostruzionistiche in Parlamento come quella contro l'attuazione dell'ordinamento regionale dello Stato. Altre battaglie lo vedono protagonista, come ad esempio quella contro la legge Scelba sul divieto della ricostituzione del Partito fascista o contro la riforma elettorale maggioritaria di De Gasperi, in difesa dell'italianità di Trieste e dell'Alto Adige, contro la nazionalizzazione dell'energia elettrica e contro la riforma della scuola media.
Nel 1969 muore Michelini e, di fronte al problema della successione alla guida di un partito in grave crisi, (nelle elezioni politiche del 1968 era sceso al 4,5 per cento dei voti, suo minimo storico ad eccezione del risultato del 1948), il gruppo dirigente del MSI elegge Almirante segretario nazionale all'unanimità.
La segreteria Almirante mira fin dall'inizio all'unita delle destre, trattando a tal fine con i monarchici e con gli indipendenti di centro-destra. Nelle elezioni regionali del 7 giugno 1970 il MSI ebbe una discreta ripresa, anche grazie al lancio di alcune parole d'ordine da parte del segretario: "alternativa al sistema", "destra nazionale" e cosi via. Inoltre, forte presa sull'elettorato ebbe l'idea della formazione di un "Fronte articolato anticomunista" con altre forze politiche, agglomerato che poi di fatto costituì la Destra Nazionale. Il risultato di questa operazione di maquillage porta il partito ad ottimi risultati nelle elezioni regionali siciliane e amministrative del 13 giugno 1971: il 16,3 per cento dei voti in Sicilia e il 16,2 per cento a Roma.
Il 28 giugno 1972 la Procura della Repubblica di Milano chiede alla Camera l'autorizzazione a procedere contro il segretario nazionale del MSI per il reato di ricostituzione del disciolto Partito fascista, autorizzazione concessa con 484 voti contro 60; ma l'inchiesta sulla presunta ricostituzione del PNF, trasferita alla Procura della Repubblica di Roma non fu mai portata a termine. Nel 1975-76 Almirante prova a rilanciare il suo partito con un'iniziativa che doveva rappresentare una nuova fase dell'operazione Destra Nazionale: la "Costituente di destra per la libertà", organizzazione esterna e alleata, fondata il 22 novembre 1975. Ma nelle elezioni politiche del 20 giugno si consuma la scissione dall'organizzazione giovanile del partito, il Fronte della Gioventù. Almirante commissaria questa organizzazione, e il 7 giugno 1977 nomina egli stesso il nuovo segretario del Fronte nella persona di Gianfranco Fini, allora venticinquenne, che già si era guadagnato la sua fiducia.
Le elezioni regionali e amministrative del 1978 danno però risultati negativi al MSI-DN. Nel corso della campagna elettorale, fra l'altro, un esponente di Democrazia Nazionale lo aveva accusato di favoreggiamento personale nei confronti di un presunto responsabile della strage di Peteano (avvenuta nel 1972); l'accusa, pur smentita dal senatore di Democrazia Nazionale sulle cui confidenze avrebbe dovuto basarsi, portò ad una lunga inchiesta, al cui termine Almirante fu rinviato a giudizio con altri, ma amnistiato prima dell'inizio del processo. Questo fu l'unico coinvolgimento di Almirante in un'inchiesta su fatti di terrorismo; in un altro caso egli, avendo avuto notizia nel luglio 1974 dei preparativi di un attentato ad un obiettivo ferroviario, ne informo subito le autorità.
Iniziata la IX legislatura, diviene presidente del Consiglio Bettino Craxi, che sembrava intenzionato a "sdoganare" il MSI-DN. Ma il partito di Almirante rimase sostanzialmente isolato a destra; e se in un'importante occasione sostenne di fatto il governo Craxi, permettendo nel febbraio 1985 la conversione in legge del cosiddetto secondo decreto Berlusconi, lo fece per una convergenza di interessi con alcune forze della maggioranza (contro il monopolio televisivo di Stato).
Nel luglio 1984 Almirante annuncia la propria intenzione di lasciare la segreteria per ragioni di salute entro la fine dell'anno, in occasione del prossimo congresso nazionale. Ma il partito gli chiede quasi all'unanimità di recedere da tale proposito. L'anziano leader acconsente a rimanere in carica ancora per un biennio. Il XIV congresso nazionale del MSI-DN (Roma, novembre-dicembre 1984) lo rielegge segretario per acclamazione, ignorando la contrapposta candidatura di Tomaso Staiti. Con queste assise inizia la fase finale della seconda segreteria Almirante, in cui tutte le cariche principali furono affidate ad uomini della vecchia guardia e di tutte le correnti. Almirante, poi, assunse personalmente la carica di direttore politico del Secolo d'Italia.
Il 12 maggio 1985 il MSI-DN ottenne nelle elezioni regionali il 6,5 per cento dei voti (suo massimo storico in questo genere di consultazioni) e riportò a Bolzano, nelle elezioni comunali, l'ultimo clamoroso successo del periodo almirantiano, divenendo il primo partito del capoluogo di quella provincia la cui italianità era sempre stata difesa dai missini. Un altro buon risultato il MSI-DN ottenne nelle elezioni regionali siciliane del giugno 1986. Nell'agosto dello stesso anno il segretario missino, colto da malore, dovette essere ricoverato nella clinica romana di Villa del Rosario.
Nelle elezioni politiche del 14 giugno 1987, in occasione delle quali Almirante condusse la sua ultima campagna elettorale, il MSI-DN scese al 5,9 per cento dei voti, 35 seggi alla Camera e 16 seggi al Senato: un insuccesso che concludeva un periodo di quattro anni assai positivo, anche se i risultati particolareggiati confermavano il radicamento del partito in ogni parte d'Italia. Il 6 settembre successivo, in occasione della festa Tricolore di Mirabello (Ferrara), Almirante presentò ufficiosamente come proprio "delfino" il trentacinquenne Gianfranco Fini, il più giovane deputato del MSI-DN. Almirante teneva moltissimo a che il suo successore fosse un suo uomo di fiducia; ma il designato avrebbe potuto essere anche della sua stessa generazione, e in questo caso sarebbe stato probabilmente il vicesegretario vicario Servello. L'imprevista scelta in favore di Fini fu da molti considerata, in quei mesi, un mero stratagemma di Almirante per continuare a dirigere il partito, in qualità di presidente, dopo avere lasciato la segreteria; sette anni dopo, invece, tale scelta si sarebbe rivelata retrospettivamente una delle più felici del fondatore della Destra Nazionale, avendo liberato il MSI-DN dall'ipoteca di un gruppo dirigente troppo anziano e dunque troppo legato al passato per poter mai uscire dal ghetto politico della destra radicale.
Per ovvie ragioni la maggioranza dei vecchi notabili missini accolse con freddezza o aperta ostilità la candidatura di Fini, che incontrava invece il favore di vari notabili della generazione successiva. Nella fase precongressuale il partito fu lacerato dalle più dure polemiche dell'ultimo decennio, polemiche che non risparmiavano il segretario uscente.
Ad ogni modo, Almirante fu eletto presidente del partito il 24 gennaio 1988, per acclamazione, dalla maggioranza del nuovo comitato centrale, incarico che mantenne per soli quattro mesi, gli ultimi della sua vita. Il 22 maggio 1988, dopo mesi di sofferenze e di ricoveri Giorgio Almirante si spegne nella clinica di Villa del Rosario. Fini onorò il suo predecessore e maestro dicendo di lui ...."un grande Italiano"...."il leader della generazione che non si è arresa".

 

PIO FILIPPANI RONCONI L'ULTIMO REDUCE DELLE SS ITALIANE.

Pietrangelo Buttafuoco
       Fonte art. IL FOGLIO

Filippani-Ronconi intervistato da Buttafuoco (2001)


Roma. “Il nascondimento – così ci dice l’ultimo superstite delle Waffen SS, appaiando sul tavolinetto ‘Segnavia’ di Martin Heidegger con il ‘Canone buddista’ – è la veste di potenza della realtà”. Pio Filippani Ronconi che nel campanello del suo appartamento ha giustamente messo tanto di corona araldica, infatti, non s’è mai nascosto. Forse il disvelamento è allora la veste di potenza del mondo che sta dietro il mondo, perché il signor conte è sempre stato quello che è. Asiatico per parte di nonna, madrileno di nascita, italiano di patria, è insignito della Croce di Ferro e quasi quasi minimizza. “Una Croce di seconda classe, non era certo la Croix pour le merit del caro Ernst Jünger. Ma cosa mai posso essere stato rispetto ai miei antenati guerrieri, io?”. Ne ha avuto uno che s’è fatto fucilare per non aver voluto gridare “vive la République!” davanti al fuoco dell’esercito napoleonico, un altro che si ricordò in un post scriptum di essere stato nominato anche medaglia d’oro, uno zio, “uncle Joseph”, nelle A ntille di quel tempo che “certo non erano il posto chic di adesso”, un padre – “l’ingegnere signor conte” – veloce con la colt da meritarsi più di una leggenda nelle Americhe di Butch Cassidy e Sundance Kid e del Mucchio Selvaggio, una madre infine, catturata nella Spagna della guerra civile, che quando viene portata “all’allegra fucilazione” rieducativa dai rossi di Barcellona, chiede al capo plotone: “Dammi il cappotto”. La storia della mamma è niente male. “Il rosso le risponde: ‘Che cosa te ne importa donna, tra poco sarai un pezzo di carne frolla’. Lei chiese ancora il suo cappotto: ‘C’è freddo, non voglio che tu possa pensare che stia tremando
dalla paura’. Il capo plotone le si avvicinò rapito: ‘Donna, tu hai più coglioni di me!’ ”. La madre aveva “occhi verdi e spirito celtico”.
E’ un soldato dunque Pio Filippani Ronconi. Forse l’ultimo: “Ma cosa mai posso essere stato rispetto a tutti i miei antenati guerrieri, io. Il più male in arnese di loro mi fa marameo”. E il signor conte appoggia il pollice al naso e, pur tradendo un leggero tremore da ottantunenne, fa: “Marameo”.
Disarmando ogni pregiudizio, offrendosi all’occhio laico e al pudore liberale, così si presenta: “Sono solo un relitto che non è potuto affondare per mancanza d’acqua”. E si potrebbe aggiungere: “E’ un relitto che non hanno saputo affondare”. Pio Filippani Ronconi che è stato comunque un potente rappresentante dell’establishment culturale accademico, è anche la più recente vittima della memoria. Si sono accorti di una sua foto in divisa (“Avevamo pantaloni da sci, la giacca germanizzata, le mostrine con le rune, berretto col Totenkopf”), hanno inviato una email al cdr del Corriere della Sera dove il conte, che è il più importante tra gli orientalisti, aveva cominciato a scrivere, e Ferruccio de Bortoli – custode, anche suo malgrado, della memoria – lo ha dovuto sospendere o meglio licenziare o, piuttosto, cancellare. In un film americano “L’allievo”, con la storia di un distinto signore in età, dal passato buio (ovviamente nazi), ci hanno fatto un racconto di bassa pedagogia buonista. Con Pio Filippani Ronconi, invece, i vicini che se lo sono visti ritratto sul giornale in divisa (quella divisa) hanno fatto solo un commento alla moglie: “Ma che bel ragazzo era il professore!”.
Il signor conte è appunto professore. Maestro all’Istituto orientale di Napoli, traduttore delle Upanishad , autore Utet e Bollati Boringhieri, collaboratore di Giorgio Colli, autorità indiscussa di quella scienza della guerra che è la notte del ΝΕΚΤΑΡ. C’è una formula vedica che rende bene l’idea. “Ayus pra tr” signica “portare la vita al di là degli ostacoli”, o meglio, “fare attraversare la morte alla vita”. Ebbe una laurea honoris causa ancora qualche anno fa. Consegnatagli democraticamente a Trieste da Luigi Berlinguer. Fece una prolusione in latino e in persiano. Di lui si sa che conosce tante lingue da far sospettare una contaminazione tale da ricorrere a un manuale d’esorcismo. Parla un tedesco vagamente barbarico, con influenze svedesi, borbotta in spagnolo, sbotta in runico, pensa in sanscrito. Declama tutti e trenta i plurali regolari dell’arabo e naturalmente anche il trentunesimo, l’irregolare. “Sono come quelli abruzzesi” dice lui per rassicurare gli stupefatti. Pratico del Tibet manco fosse l’Abruzzo, ulula nella lingua dei lupi e anche in quella dei turchi. Una volta, addormentato in una grotta, venne svegliato da una coppia. “Di lupi, non di turchi”. Conosce l’ebraico e l’aramaico. Li studiò da ragazzino frequentando la sinagoga di Roma quando era un giovane collegiale al De Merode. “Nessuno poteva mai immaginare in me la futura SS. Entravo e chiedevo: ‘Dove si sta leggendo?’. Trovavo sempre un dito gentile che mi indicava il punto del Libro”. “Da adulto, andando in giro per il mondo – perché non creda che io abbia trascorso tutto il mio tempo studiando – ho disseminato dappertutto le rune. In Africa, in Asia, nelle Americhe. Vedrà che prima o poi qualche archeologo tedesco cadrà in questa trappola e ci farà una teoria su quanto avevano girato il mondo gli antichi germani. Ho studiato la Cabala naturalmente”. Ha studiato la Cabala naturalmente.
La storia di Pio Filippani Ronconi è veramente la storia del mondo dietro il mondo. Altro che laurea. La cameriera che certo non decifra la delicata calligrafia iranica del signor conte, si raccomandava: “Se la faccia dare in medicina la laurea, ché i dottori guadagnano bene”. Questo ultimo aneddoto ce lo ha raccontato la moglie che è un bello spirito. Lei si sta divertendo in queste giornate di offensiva del politicamente corretto, squilla il telefono e dice al marito: “Wanda, ti vogliono. Sei più cercato di Wanda Osiri ormai”. In questa casa dove ci guardano gli occhi dello Scià persiano, accanto alle divinità guerriere della perfezione, da sotto il vetro della scrivania guarda anche un frate cappuccino. Un giorno un marocchino amico di famiglia si ritirò per la preghiera avendo però il cuore colmo di sconforto. Povero, senza aiuto, alzava il canto al Dio Clemente e Misericordioso quando a un tratto si trovò interrotto da un uomo in saio, forse un sufi, ma con le mani bendate, che gli disse: “Non avere pena, domani avrai il denaro sufficiente per andare a Mecca”. Turbato, il marocchino se ne tornò agli affanni della sua giornata per trovare l’indomani nella buca delle lettere una busta piena di soldi. “La lettera era stata spedita da San Giovanni Rotondo dove lui fece la prima tappa per la Mecca, era stato padre Pio a fare il miracolo”. Così ci dice la signora che ci racconta anche di certe serate mondane con il professore birichino che, “quando passa Norberto Bobbio in processione”, gli va incontro per dirgli: “Ciao, come ti va la vita?”.
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, Pio Filippani Ronconi non è mai stato iscritto al Partito nazionale fascista, neppure quando era ancora un giovane assistente di Giuseppe Tucci, il suo maestro di dottrina tibetana, quando invece che concentrarsi nella carriera tra i traccheggi, lui con Sua Eccellenza il ministro Giuseppe Bottai avrebbe discusso solo di calibro 8 e di escursioni nel Sahara. “Ero solo un soldato, niente altro che un soldato pronto ad andare laddove ci fosse un pezzo di guerra. Come mio padre d’altronde, che allo scoppio della Prima guerra mondiale lasciò le sue mandrie cornute tra la Cordigliera delle Ande e Capo Horn, regalò la sua colt a un amico e se ne andò tra plotoni scudati, quelli che con la visiera agli occhi se ne andavano a depositare candele di dinamite dentro le trincee degli austriaci”.
Squilla ancora il telefono. Il professore che a questo punto non possiamo più chiamare con il titolo accademico, ma “soldato”, che come definizione gli è più congeniale, si aggrappa alla sua katana, la spada da samurai, se la porta ai denti e la stringe per farsi pazienza. Detto tra parentesi è una bellissima spada: “E’ vecchia e cionca – dice – ma ha aperto tante teste americane”. Il soldato si fa proprio un punto d’onore della sua capacità di farsi largo con la lama. “Sì, questo sì. Sono celebre nel tirare con il pugnale, solo io tra i ragazzi dell’Esercito italiano potevo tenere testa alla bravura dei siciliani e dei calabresi con il coltello, anzi, insegnavo loro come sgozzare un uomo senza perdere tempo”.
La storia di Pio Filippani Ronconi, conte, patrizio romano, è la storia dell’ultimo soldato. Appunto: “Della Ventinovesima divisione granatieri SS, dei 1.650 uomini che rispondevano agli ordini di Carlo Federico degli Oddi, il mio comandante, ce n’è uno superstite, uno: quello che sta davanti a lei”. L’otto settembre, che lo aveva travolto nello spavento di un’insopportabile vergogna, gli fece cercare a tutti i costi l’estrema possibilità di mettere a nudo se stesso, “scheggia di morte” quale voleva essere, nell’annullamento di un rituale suicidio d’omaggio all’onore che non conosce riti. “Cercavo un seppuku” ci dice oggi, un suicidio elaborato nella purificazione. Nelle Waffen questo soldato trovò la tipica scuola di guerra, “quella a piedi dei grandi eserciti del ’700”. “Volevo annullarmi e la notizia della costituzione di una divisione italiana mi trovò triste perché dopo l’otto settembre l’Italia era solo vergogna”. Le Waffen SS furono nella notte del ΝΕΚΤΑΡ dell’ultimo anno di guerra, la legione straniera di chi aveva eletto la Germania “anima dell’Europa”. Arrivavano dal Belgio, dalla Francia, 600 uomini anche dall’Inghilterra. E naturalmente c’erano russi, lituani, ceceni, turchi, egiziani. Ovviamente indiani, tibetani, tartari. C’erano le SS musulmane a cavallo. “C’erano anche le SS albanesi – ricorda ancora Filippani Ronconi – ma erano così disordinate…”. Si sommavano, in tutto, in 38 divisioni. A Mariano Comense, davanti allo stato maggiore, al suono di quello che secondo il soldato è l’inno più bello di tutti i tempi, “Gloria di Prussia, l’inno di Federico II”, marciarono le rappresentanze di tutte quelle divisioni. Etnie, popoli e lingue di quel mondo dietro il mondo si ritrovarono sotto le insegne runiche. “Mi sembrò una scena settecentesca”. Oggi il soldato dice: “In Germania trova luogo l’anima dell’Europa. Essendo anche un ufficiale tedesco, conosco bene la mia materia. Anche se la Germania ha avuto bisogno di un’iniezione asiatica. Le SS, infatti, i migliori li mandavano in Tibet”.
C’è un capitolo che solo questo soldato può aprire, ci permettiamo di farlo sotto la forma di una domanda morbosa. A proposito di iniezione asiatica, ma Ernst Jünger, era un iniziato? “Nel senso della Thule?”. In quel senso, certo. “Sì”. E’ il vero motivo per cui Adolf Hitler non poté permettersi di mandarlo a morte? “Lo stesso motivo per cui non se lo sarebbe potuto permettere con me”, così ci è sembrato di sentire tra le parole di questo soldato che, “nel rammemoramento spirituale” ci sembra ormai il Riccardo III di William Shakespeare, e cioè il “virtuoso dell’azione”. La guerra lo ha attraversato facendolo suo. “Ero alto un metro e 78 centimetri e mezzo. Volevo andare nei paracadutisti, ma non mi presero per mezzo centimetro, non ci riuscii neppure mettendo una saponetta sotto il tallone per alzarmi di più. Me ne vergognai. Feci però la guerra nel modo migliore. Nel mio corpo si sono avventati i pidocchi e le bombe. Ho avuto tutte le malattie, tutti le smorfie della morte e anche tutti i suoi recessi: la diarrea di sangue, l’epatite, la setticemia. Per questo non ho mai permesso a nessun signorino vestito bene, quelli che vedevo nelle scuole ufficiali, di insegnare a me la guerra”. Lui incarna il fuoco di Marte: “Ma le divinità che mi assistevano nel conflitto erano soprattutto Odino ed Hermès. Uno mi dava la potenza distruttiva, l’altro invece mi insegnava a strisciare sotto il fuoco nemico per raggiungere le mie prede. Mi ha insegnato anche a rubare. Io rubavo tutto, io non avevo niente, io non mi portavo mai bagagli, tesori, soldi. La rapina era la mia condizione di spontaneità. Tutto era a mia disposizione, le armi dovevano essere mie, soprattutto le armi dei nemici, erano tutte del conte Filippani Ronconi. La mia stessa divisa era la somma di pezzi che recuperavo ovunque. Mi veniva rattoppata dalle amiche. Alla mia gamba squarciata poi, avevo attaccato lo stipite di una porta”. Una protesi degna di Riccardo III. E oggi? “Ho lasciato tutto, ho fatto cose di cui non parlo”. Ci lasciamo il sospetto che tra le cose fatte e di cui non parla ci sia tanta di quella pietas che solo un guerriero educato da Livio e da Krsn_a si può consentire. Non c’è traccia di odio in questo soldato. Riccardo III, infatti, di tutti i suoi nemici sconfitti non fa mai carne da condanna eterna, ma piuttosto ospiti. “Ho lasciato tutto” dice, e infatti non ha nostalgie. Forse solo per la frutta che mangiava negli “anni Quaranta”. La frutta che “aveva un sapore diverso”. Figurarsi allora se anche la guerra, il frutto più impossibile del divino, non ha perso il sapore della sua indicibile diversità. “Anche se noi, figli di Manu, abbiamo connaturata la morte. O Aditia, portate la nostra vita oltre gli ostacoli perché viviamo!”.






 

La rivolta sociale è alle porte .

 
La manovra del Governo ci porterà verso una recessione gravissima. Le famiglie devono reagire a quest'attacco e organizzare rivolte sociali.



 

GLI STORMI ATLANTICI DI ITALO BALBO




Italo Balbo (Ferrara 1896-Tobruk 1940), nominato Ministro dell'Aviazione nel 1929 seppe dare un notevole impulso alla nuova Arma al punto di progettare e condurre due memorabili e trionfali imprese :... la Trasvolata dell'Atlantico Meridionale, Orbetello-Rio de Janeiro, 17 dicembre 1930- 15 gennaio 1931, con 14 idrovolanti Siai S.55 TA (Trasvolata Atlantica) e la doppia Trasvolata dell'Atlantico Settentrionale, Orbetello-Cigago-Lido Ostia, 1 luglio -12 agosto 1933, con 25 idrovolanti S.55 X.

Nel 1933 fu nominato Maresciallo dell'Aria e nel 1934 Governatore della Libia ove profuse con passione le sue energie volte al benessere e alla grandezza di quella Colonia.

Il 28 giugno 1940, pochi giorni dopo l'inizio della II GM Italo Balbo, rientrando da uno dei suoi frequenti voli di visita al fronte, cadde col suo aereo in fiamme nel cielo di Tobruk.
Fonte art. Pagina amica facebook    Nuova Italia II.
 

Ordine Futuro





PATRIA! SOGNO, MITO, POESIA …
Un itinerario poetico- musicale, una fusione di formule diverse (conferenza, lettura poetica, concerto) suggestiva e formativa. Da replicare.
Sabato 26 gennaio a Altopascio (Lucca) Ordine Futuro in collabo...razione con S4S e Linea Ovest, ha organizzato una giornata di approfondimenti e di contropotere culturale. Nel pomeriggio, dopo un intervento sulla musica alternativa a cura di Archivio Non Conforme, Duilio Canu ha tenuto una conferenza sul tema: “Skinhead: da ribelle di strada a soldato politico”. Partendo dalle origini del mondo skin, Canu ha ripercorso la storia della parte più politica e consapevole del movimento sottolineando l’importanza essenziale della formazione culturale e dottrinaria che ha portato in passato tanti giovani a fare un salto di qualità e a passare appunto dal ribellismo generico alla battaglia militante per la ricostruzione della nostra Patria. Dopo un intervento di C. Modola sulle Comunità Organiche e una ottima cena militante, si è svolto lo spettacolo “Patria! Sogno, Mito e Poesia…” dedicato a “Arditi, Giovani Aquile e Martiri d’Europa”. Definito “itinerario poetico-musicale alle radici della nostra identità, dei nostri valori e del concetto di Patria”, lo spettacolo è essenzialmente una serie di testimonianze di uomini che hanno consacrato la propria vita alla causa del proprio popolo e della terra dei padri supportate da un sottofondo musicale e alternate a canzoni “a tema” suonate dai Delenda Carthago. La formula ideata da Gabriele Venezi e dai Delenda Carthago, è in via di perfezionamento tecnico ma è chiaramente una fusione suggestiva e formativa di formule diverse (conferenza, lettura, concerto) e il risultato è una sinergia potente tanto sul piano emotivo che culturale. Una iniziativa lodevole e sicuramente da replicare in futuro.
Ordine Futuro
 
 
 
 

Militanti di Forza Nuova arrestati perché sventolavano il tricolore


Il Segretario Nazionale di Forza Nuova, Roberto Fiore in merito agli arresti di questa mattina di due esponenti pugliesi di Forza Nuova che partecipavano alla manifestazione indetta dal Movimento dei Forconi nel dicembre scorso, comunica: “L'arresto di due militanti forzanovisti da parte della procura della Repubblica di Trani per aver manifestato a volto scoperto, assieme ad altre centinaia di persone e senza minacciare nè aggredire fisicamente qualcuno, è assolutamente ridicolo e privo di qualsiasi fondamento giuridico. Spiace che la solerzia e la sete di giustizia che la procura della Repubblica di Trani ha dimostrato in questa occasione, non sia stata dimostrata quando, pochi mesi fa, per conto di Forza Nuova, depositai, presso la stessa procura, un dettagliato esposto chiedendo di aprire un'indagine contro l'ex Presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia e delle Finanze ad interim Mario Monti, a proposito del bonifico di circa tre miliardi di euro effettuato dal Ministero del Tesoro a favore di Morgan Stanley”.
“La storia si ripete: le elezioni si avvicinano e bisogna cominciare a gettare fango sull'unica forza politica che fa realmente opposizione a questo sistema partitocratico e che è in continua ascesa. Forza Nuova non cadrà nelle provocazioni e non farà passi indietro ma continuerà la lotta contro questo sistema corrotto e vigliacco. Libertà per i forzano visti”.

Roberto Fiore, ‘ridicolo e privo di qualsiasi fondamento giuridico’




Fidanzate con la morte. Storia delle ragazze di Salò



Di Franca Poli.


E’ il 6 agosto 1936, a Berlino il cuore di una bella ragazza bionda di soli 20 anni batte all’impazzata. La finale degli 80 metri ostacoli la sta aspettando e lei è pronta ad affrontarla, mettendoci la grinta e il coraggio di cui sarà capace. Al via corre con tutte le sue le forze e primeggia. Ondina Valla, nata a Bologna nel 1916, è stata la prima donna italiana a vincere un oro olimpico. Al suo rientro fu poi ricevuta con tutti gli onori a Palazzo Venezia da Mussolini in persona e nel 1937 le venne riconosciuta una ulteriore medaglia d’oro al valore sportivo accompagnata da un assegno di cinquemila lire, cifra per allora di tutto rispetto.
Il Fascismo aveva operato una rivoluzione nel mondo femminile: in quegli anni la donna fu incoraggiata a dedicarsi allo sport, nonostante l’ostracismo della Chiesa e, nel 1929, un anno dopo l’inizio dei lavori per la costruzione del Foro, il governo fascista annunciava la nascita dell’Accademia di Educazione Fisica Femminile a Orvieto. Un provvedimento che rispondeva all’esigenza di formare nuove insegnanti per le scuole medie e per le organizzazioni femminili fasciste. Nell’Accademia di Orvieto e in altri Collegi, retti dal PNF, le ragazze “capaci e meritevoli”, segnalate dagli insegnanti, venivano fatte studiare gratuitamente, a spese non dello Stato ma del Partito stesso.
Tali “scuole” raggiunsero una notevole fama, anche a livello internazionale, per la serietà degli studi, la disciplina dello sport, lo spirito cameratesco fra le ragazze e la vita gioiosa e serena che vi si conduceva. Le organizzazioni femminili fasciste furono affidate esclusivamente alle donne e la Segretaria Nazionale rispondeva del suo operato soltanto al Segretario dei Partito, il quale esercitava esclusivamente vigilanza amministrativa e di coordinamento.
Il Duce in persona, con la sua politica rivolta al mondo femminile, fu il creatore del legame donna-fascismo. Il suo progetto politico mirò alla formazione di una “nuova italiana”: la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana che coinvolse sia gli aspetti più intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la sua formazione e l’inserimento sociale. Per la prima volta in Italia, la donna venne valorizzata e resa autonoma nelle sue scelte e nelle sue prospettive. Le fu affidato il settore più delicato e impegnativo, quello dell’assistenza all’infanzia e alle categorie disagiate e, in tale compito, ebbe piena autonomia e piena responsabilità. Le donne risposero con impegno e capacità inattese, era emancipazione, checché se ne dica.
In quel particolare clima spirituale, fatto di amore per la Patria, senso della disciplina, del dovere e del sacrificio è facilmente intuibile il motivo per cui dopo il tradimento dell’8 settembre, tante giovani donne per l’indignazione che vanificava lo sforzo comune di più generazioni si sentirono spinte a una scelta non soltanto politica, ma a difesa dell’onore stesso d’Italia. Anche le “giovani italiane” dell’ONB, come le sorelle maggiori, non esitarono ad abbandonare la casa, la scuola, gli affetti e le comodità, scegliendo una vita di disciplina e di sacrificio, pur di poter essere anche loro utili alla Patria. Esse vollero dimostrare in modo tangibile la loro ribellione all’ignobile tradimento e volontariamente si mobilitarono per schierarsi a fianco dei soldati italiani che combattevano nella Repubblica Sociale. Erano le donne di Mussolini, animate da puro ideale, spirito di avventura, fedeltà a un regime che consideravano immutabile e da un amore viscerale nei confronti dell’uomo che sentivano come un padre.
Una ragazza di Salò racconta l’incontro con il Duce e di quei “lacrimoni” versati per l’immensa gioia di essere passata finalmente sotto il suo sguardo: “quello che mi colpì del Duce fu l’espressione dei suoi occhi, che infatti non ho mai più dimenticato: sembrava che ci guardasse a una a una e che il suo stato d’animo, di fronte al nostro slancio, fosse di una gioia pensosa. Ciò che direi, oggi, è che il suo sguardo non aveva nulla del leader che insuperbisce alla vista di coloro che lo acclamano. Viceversa, era quello di un padre che è sì orgoglioso dei propri figli ma anche, in un suo modo segreto, preoccupato del loro avvenire; e preoccupato, anzi, assai più del loro destino che del proprio”.
Nel gennaio 1944 il giornalista Concetto Pettinato scrisse su “La Stampa” un appassionato articolo “Breve discorso alle donne d’Italia”: “Un battaglione di donne: e perché no? Il governo americano si è impegnato a gettare le nostre figlie e le nostre sorelle alla sconcia foia dei suoi soldati d’ogni pelle. Ebbene, perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne, ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile a tracolla?”. A Milano, in Piazza S. Sepolcro, circa 600 giovani donne si radunarono spontaneamente a ribadire la loro volontà di partecipare in modo attivo al conflitto, chiedendo di essere arruolate. Situazioni analoghe si verificarono in altri centri della Repubblica Sociale italiana. Cominciarono così a costituirsi gruppi femminili in servizio presso i Comandi Militari. Data l’alta affluenza e la determinazione di tante donne si fece sempre più concreta l’idea di un arruolamento volontario femminile nelle file dell’Esercito Repubblicano.
Il Servizio Ausiliario Femminile venne istituito il 18 aprile 1944 e il comando fu affidato al generale di brigata Piera Gatteschi Fodelli già ispettrice nazionale dei Fasci di Combattimento Femminili, unica donna a rivestire un grado militare così elevato. Le volontarie erano divise in tre raggruppamenti: il Servizio Ausiliario Femminile per l’esercito, le Brigate Bere e la Decima Mas. Quest’ultima ebbe il SAF autonomo dagli altri due. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921) che, in precedenza al luglio 1943, si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista.
La divisa delle “ragazze di Salò” era costituita da giacca sahariana senza collo e gonna pantaloni, entrambe di colore kaki, camicia nera, basco, e fregi rappresentativi del corpo di appartenenza sul bavero e sulla fibbia del cinturone. La disciplina a cui venivano sottoposte era quella militare: le volontarie ammesse dovevano infatti frequentare corsi di addestramento che avrebbero cambiato totalmente le loro abitudini di vita. La giornata era scandita dallo squillo della tromba e iniziava con la sveglia, la pulizia personale, la colazione e l’alzabandiera, durante il quale le allieve recitavano la preghiera dell’Ausiliaria . Nello svolgimento dei loro compiti venivano adibite ai servizi ospedalieri come infermiere, ai servizi negli uffici militari, nelle mense nei posti di ristoro e alcune ausiliare vennero impiegate come ascoltatrici nella contraerea, come radiotelegrafiste e altre ancora furono attive nei reparti Sabotatori.
Comunque, per avere un’idea di quella che fu la portata di tale fenomeno e soprattutto della vastità dell’adesione che queste giovani donne diedero alla RSI, ricordiamo che “il 28 Ottobre del 1944, in una relazione che il generale Piera Gatteschi scrive a Mussolini, le ausiliarie del SAF in servizio nei vari settori erano 1.237, provenienti da sei corsi nazionali( …), e 5.500 le volontarie in addestramento nei ventidue Corsi Provinciali” (Dati raccolti dall’Archivio Centrale Dello Stato – Roma). Nei documenti dei mesi successivi, invece, risulta, addirittura, che si arrivarono a contare quasi 10.000 ausiliarie in servizio, tutte in un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. Provenivano da ogni ceto sociale e da ogni parte dell’Italia, erano in tante le ragazze non ancora maggiorenni, molte le spose, e parecchie anche le madri che si fecero ausiliare per andare incontro a un destino che sapevano già segnato. Alcune morirono, moltissime altre subirono sevizie materiali e morali da parte di soldati alleati e partigiani. Ciò che più lascia allibiti, infatti, è senza dubbio il tributo di sangue che queste giovanissime pagarono per difendere la loro fede.
Le prime ausiliarie che persero la vita furono le sei che morirono nell’attentato a Cà Giustiniano, a Venezia, il 26 Luglio 1944. Alla data del 18 Aprile 1945, invece, si contavano 25 cadute, 8 ferite, 7 disperse, 13 sottoposte a decorazioni. Ma non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che durante le tragiche giornate di sangue di fine aprile e maggio furono massacrate o trucidate selvaggiamente dopo essere state violentate, torturate, seviziate dagli ”eroici” partigiani. Infatti, il SAF fu il reparto che, in rapporto a quello che era il suo organico, registrò la più alta percentuale di caduti.
Dopo il 25 aprile, la sopravivenza o la morte delle ausiliarie furono dovute alla capacità e alla prudenza dei comandanti dei reparti cui erano aggregate, ma anche al caso e alla fortuna.
Chi cadeva nelle mani degli Alleati, generalmente, dopo un sommario interrogatorio, veniva posta in libertà. Chi, invece, cadeva nelle mani di partigiani non comunisti, finiva in campo di concentramento, in attesa di accertamento per eventuali responsabilità personali e poiché responsabilità personali non ce n’erano, dopo qualche tempo tornava libera. Non ci fu scampo, invece, per le sventurate cadute in mano ai partigiani rossi che restano gli unici responsabili del massacro di quele ausiliarie che non piegandosi all’odio comunista morirono con coraggio molto spesso dopo aver subito violenze, stupri e sevizie e, per crudeltà mentale, dopo aver dovuto sfilare nude, con i capelli tagliati a zero, tra ali di gente inferocita imbarbarita dall’odio fomentato dagli stessi aguzzini.
Un’idea precisa ed impressionante del clima in cui vennero a trovarsi le ausiliarie in quei giorni è resa da Antonia Setti Carraro, che ha narrato la sua testimonianza nel libro “Carità e Tormento” scritto nel 1982, quando, ancora quarant’anni dopo, non riusciva a dimenticare le scene spaventose alle quali aveva assistito. Uno spettacolo allucinante in una Torino in preda all’odio e al sangue, con cadaveri disseminati dovunque. Sul Po “L’acqua” scrive Antonia Setti Carraro “che era bassa e sembrava ferma, brulicava di cadaveri. A testa in giù, a braccia aperte, a gambe divaricate, a faccia in su, a pezzi o tutti interi, giovani, ragazzi, uomini, donne e fanciulle giacevano scomposti, aggrovigliati, ammassati, paurosi a vedersi, atroci nelle posizioni. Le ausiliarie erano impallidite in modo terribile”.
Questo racconto, che resta uno dei più sinceri, nella descrizione dell’odio demoniaco di cui sono stati capaci certi italiani e si conclude con la quasi miracolosa fuga delle otto donne catturate poiché i loro carcerieri erano troppo impegnati a gustarsi, nei minimi particolari, l’agonia di un fascista .
Non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che hanno perso la vita ingiustamente in quei giorni di follia omicida che colpì vigliaccamente le figure più fragili, si parla di 300 o di oltre un migliaio a seconda delle fonti, ma non conta quante furono, conta l’infamia del gesto che le colpì fosse anche verso una sola donna.
In conclusione citiamo alcuni esempi di fulgido eroismo delle ragazze che vissero quei giorni bui:
-Giovanna Deiana. Colpita al viso da una scheggia durante un bombardamento alleato, era rimasta cieca e nonostante questa menomazione, supplicò il Duce di essere accolta nelle volontarie del SAF, la sua richiesta fu esaudita e venne assegnata ai centri di ascolto della contraerea. Raccontano di lei le sue colleghe: “Attorno a sé rifletteva la serenità del suo spirito non piegato dalla prova. Era come se vedesse più profondamente di tutte.”
-Raffaella Duelli prima da ausiliaria della Decima poi da assistente sociale di bambini disagiati, fino al suo ultimo giorno di vita si è dedicata al prossimo: “Nell’opera di recupero delle salme dei combattenti e nella quotidiana attenzione per chi soffre − qualità essenziale nella mia professione − c’è la stessa forza dei valori. Quegli ideali di solidarietà e patriottismo che animavano la mia prima giovinezza li ho trasferiti nell’impegno per i bambini delle periferie romane. Una certa idea della Patria non può essere disgiunta da quella di solidarietà e di giustizia sociale”.
-Marilena Grill di 17 anni fu prelevata dai partigiani con la promessa ai genitori di riportarla a casa dopo un interrogatorio. Marilena volle indossare la divisa pensando che sarebbe stata uccisa, ma non venne fucilata, non subito, fu prima portata in un casolare di campagna dove fu ripetutamente violentata le straziarono il corpo infilzandole i seni con la lama della baionetta, la torturarono sessualmente con bastoni fino a farla sanguinare, alla fine le spararono un colpo alla nuca e mantennero la promessa fatta al padre: la riportarono indietro, buttandola cadavere davanti la porta di casa.
-La storia dell’ausiliaria Franca Barbieri, proposta per la medaglia d’oro, è quella di un soldato. Catturata dai partigiani, le viene offerta la vita a condizione di passare nei ranghi delle loro formazioni. L’ausiliaria rifiuta. Di fronte al plotone di esecuzione grida “Viva l’Italia” e cade sotto le raffiche dei mitra. Franca scrive nelle ultime righe consegnate prima della condanna a morte: “Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole.”
C’è un filo rosso che lega queste esperienze, una traccia comune che salda storie così diverse è il prezzo pagato dalle donne di Salò, che avevano servito l’Italia con fedeltà, spinte solo da motivazioni ideali , così delicate come un fiore e così forti allo stesso tempo da vestire con onore il grigioverde.

Fonte art.   http://www.qelsi.it  

giovedì 30 gennaio 2014

L’assassinio di Mussolini, il mistero continua



 Autore: Luca Leonello Rimbotti.

Gli ultimi giorni di Mussolini costituiscono un’intricata matassa: da oltre sessant’anni storici e giornalisti da una parte, e mestatori politici dall’altra, si ingegnano per cercare di districarla oppure per complicarla. Sappiamo che in quei giorni sulle rive del lago di Como si dettero convegno interessi diversi, dai servizi segreti americani, inglesi, svizzeri, ai partigiani comunisti e a quelli anticomunisti. Tutti volevano Mussolini: vivo o, più spesso, morto. Sappiamo anche che il famoso “oro di Dongo”, cioè le riserve auree della RSI, come appare appurato, servì al PCI per comprarsi la sede di via delle Botteghe Oscure e per farsi il tesoretto con cui è campato per decenni.
La recente uscita del volume di Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cereghino La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946), pubblicato da Garzanti, avrebbe la pretesa di dire la parola definitiva in argomento. Gli autori scrivono che, dopo la loro consultazione degli archivi americani, ogni altra precedente ricostruzione deve essere considerata superata o frutto di illazioni. Cereghino ha avuto libero accesso alla consultazione di due memorandum, conservati negli archivi del I nel Maryland, stesi nel 1945 dall’Office of Strategic Services (OSS), che farebbero testo come fonti dirette e autentiche circa le ultime ore vissute dal capo del Fascismo. Da questi documenti esce in ogni caso un primo dato: le ricostruzioni fatte dai comunisti sin dal primo maggio 1945 e poi nel 1947 in più puntate da Walter Audisio, uscite su “L’Unità”, seguite dalle cosiddette rivelazioni dell’ex-partigiano Lampredi nel 1996, non sarebbero che accomodamenti posteriori, reticenti e intesi a coprire fatti e persone.
Del resto, è risaputo che subito dopo la “liberazione” tra i partigiani che ruotarono intorno al Duce in quei giorni di aprile si scatenò una faida. E che alcuni “compagni” non troppo ossequienti verso le direttive del PCI, che avevano visto e saputo troppo, ci rimisero la testa. Il racconto addomesticato dai comunisti prevedeva il lancio della figura del “vendicatore”, il “colonnello Valerio”, sorto come dal nulla per giustiziare il tiranno in nome del popolo italiano. Questa versione propagandistica viene contestata anche dagli autori del libro segnalato. Per altro, già da molti anni si sapeva che le cose andarono diversamente, che a uccidere Mussolini e Claretta Petacci non fu Audisio ma con tutta probabilità il partigiano Moretti, che ad essere presenti furono in parecchi, e che c’è anche il fondato dubbio che tutta la storia sia stata montata a posteriori, per abbellire uno scenario altrimenti inglorioso per i partigiani.
Gli storici de La fine confermano che la versione di comodo fornita dal PCI fu garantita da svariate eliminazioni nei primi giorni del maggio 1945. I testimoni scomodi vennero liquidati alla sovietica: il partigiano “Lino”, uno dei due carcerieri del Duce nella casa dei De Maria a Bonzanigo, fu ucciso la notte tra il 4 e il 5 maggio, il “capitano Neri” sparì il 7 e la sua fidanzata, la partigiana “Gianna”, anch’essa presente il 28 aprile al momento della fucilazione di Mussolini, fu eliminata nel giugno seguente insieme ad altri due o tre testimoni dei fatti. E persino Franco De Agazio, il giornalista direttore del settimanale “Il Meridiano d’Italia”, che per primo aveva indagato sulla vicenda rivelando la vera identità del “colonnello Valerio”, venne ucciso agli inizi del 1947. Insomma, qualcosa di mafioso e di omertoso sembra intimamente connesso con l’assassinio di Mussolini.
Giorgio Pisanò, nel 1956, nel corso di una sua inchiesta per il settimanale “Oggi”, riuscì a incontrare Sandrino, il partigiano “Menefrego”, l’altro dei due che insieme a “Lino” aveva fatto la guardia a Mussolini e alla Petacci nella notte tra il 27 e il 28 aprile, e cercò di farlo parlare.
Tra mille reticenze, ma con l’ammissione che si trovava sotto minaccia di morte qualora avesse parlato, Sandrino fece chiaramente capire al giornalista che dietro tutta la faccenda c’era qualcosa di poco pulito, ma che aveva troppa paura per parlare. Poi, nel 1996, Pisanò raccolse nel volume Gli ultimi cinque secondi di Mussolini il risultato di quarant’anni di ricerche sulla vicenda. Sulla scorta soprattutto della sensazionale testimonianza di Dorina Mazzola, all’epoca ragazza, che abitava proprio davanti alla casa De Maria, e che fu testimone oculare dell’esecuzione della Petacci, Pisanò così ricostruì le fasi del dramma: «Mussolini, avendo capito che erano arrivati per ucciderlo, si era difeso, forse impugnando quella pistola che secondo alcuni gli aveva lasciato il capitano Neri; uno dei partigiani gli aveva sparato contro, ferendolo in maniera non grave… poi l’avevano spinto fuori dalla stanza e giù per le scale fino al cortile… e lì l’avevano finito». Poco dopo sarebbe toccato a Claretta, ammazzata senza tante storie. E Pisanò concludeva che con tutta probabilità fu Longo in persona a compiere il massacro, giunto a Como espressamente inviato dai falchi del CLNAI, tra cui Pertini e Valiani. Questa ricostruzione rimane la più credibile. La stessa autopsia stesa dal dottor Alessiani stabiliva infatti che Mussolini e Claretta erano morti svariate ore prima della finta “fucilazione”, orchestrata davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Pisanò registrò anche testimonianze di persone che avevano raccolto i due cadaveri davanti alla villa: niente sangue per terra e rigidità dei corpi, segno che la morte era avvenuta in altro luogo e diverse ore prima: «Mussolini e la Petacci, allora, non erano stati uccisi davanti al cancello. Ce li avevano portati già morti, dopo averli ammazzati lontano da lì. Ma dove? Il dottor Alessiani – continuava Pisanò nel suo libro del 1996 – sosteneva che erano stati uccisi in casa De Maria, e che la Petacci era stata colpita a morte nel tentativo di difendere Mussolini gettandosi sul suo corpo già raggiunto dai primi proiettili». I riscontri effettuati sulle foto, che mostravano i fori dei proiettili sui corpi del Duce e di Claretta, andavano anch’essi in questa direzione.
Ma non occorre andare oltre sulla strada degli indizi, delle prove e delle testimonianze. Probabilmente, ormai, la verità chiara non la sapremo mai. Quello che però sappiamo con certezza è che qualcosa di grosso fu tenuto nascosto dai comunisti. Sandrino lo disse apertamente a Pisanò nel ’56: «Non è andata come la raccontano. Ma io non posso dirti niente di più. Sono legato al segreto». Il recente libro La fine, su questo terreno, non smentisce nulla di quanto affermato da Pisanò. E tace sui famosi documenti che il Duce portava con sé e che furono certamente frutto di mercato tra americani e partigiani alla Prefettura di Como e anche dopo, come documentò nel 1982 Gaetano Contini nel libro La valigia di Mussolini. Piuttosto, i tre autori ci illuminano su altri dettagli. Uno è la documentazione dei rapporti di collaborazione tra i servizi americani e i comunisti: e questo già non è poco e getta ombre sulla pretesa “gara” tra di loro per mettere le mani su Mussolini. In sostanza: siamo sicuri che gli americani volessero Mussolini vivo? Altro dettaglio importante che emerge è che una liberazione del Duce nei giorni 27 e 28 aprile da parte dei fascisti era ancora possibile. Dai documenti esaminati da Cereghino in America si apprende che questo fu un costante timore dei partigiani, che sul lago di Como erano pochi, divisi tra loro da rivalità e male armati. Nel primo memorandum, stilato ai primi di maggio dall’agente Lada-Mocarski, e poi nella cronaca fatta da Giovanni Dessy, agente segreto della Marina italiana, si legge che nel pomeriggio del 27 aprile a Como «erano arrivate da Bergamo tremila camicie nere che si posizionarono nei dintorni della città. Erano bene armate e avevano molte mitragliatrici». Che, sempre intorno a Como, c’erano consistenti reparti dell’esercito di Graziani; che la mattina del 26 erano già a Como, inviatevi da Pavolini, altre forze fasciste, «circa 1500 uomini, 6/7 autoblindo e un centinaio di veicoli»; che nello stesso momento le Brigate Nere stavano anch’esse «convergendo su Como», in previsione di arrivare a Menaggio «scelta come linea di prima resistenza». Si legge poi che nelle ore in cui Mussolini veniva catturato «le forze fasciste erano ancora padrone della situazione, perché più numerose e con armi migliori»… Senza contare i molti sbandati, i tre battaglioni della Milice Française di Darnand in rotta dal fronte occidentale… e poi i tedeschi, che a migliaia transitavano in zona rifluendo dal Po: il perché le cose andarono come andarono, dopo queste conferme dei documenti conservati in America, e raccolti nell’immediatezza degli avvenimenti, è un ulteriore mistero.
Mussolini fu lasciato solo, egli stesso non chiamò a raccolta i suoi. Eppure, sempre dagli archivi del Maryland, esce la conferma che Mussolini non pensò affatto a una fuga personale, magari in Svizzera, ma che tutto doveva andare nel senso di una resistenza finale a Como o in Valtellina. Nei memorandum si dice con chiarezza che Porta, il federale di Como, confidò a Castelli, membro del Consiglio federale fascista pure di Como, che l’autocolonna con cui viaggiava Mussolini «era diretta in Valtellina». Le informazioni raccolte dagli agenti segreti riportano che l’intendimento finale di Mussolini era di «resistere fino all’ultimo con le ultime truppe rimaste fedeli nella provincia di Como» e che la mattina del 26 aprile si aspettava Pavolini: «era atteso con il grosso delle forze fasciste quella stessa mattina». Come mai il Duce sia invece improvvisamente partito da solo per Menaggio il giorno dopo, come mai si sia infilato poi nell’imbuto della colonna sulla quale fu fermato a Musso (per altro composta da numerosi uomini armati, italiani e tedeschi), come mai non si attuarono collegamenti con il grosso dei fascisti, che era vicinissimo e che facilmente avrebbe potuto intervenire a liberarlo il 27 e ancora nella notte sul 28 – avendo di fronte solo poche decine di partigiani male armati e molto preoccupati per questa prospettiva – è a tutt’oggi materia oscurissima.
Il fatto che rimane è che, anche alla luce dei documenti americani esaminati, non risulta alcuna intenzione di fuga da parte di Mussolini, ma semmai solo un susseguirsi di stati d’animo umani, troppo umani. In ogni caso, ciò che emerge dai documenti è che l’estrema battaglia – quella che avrebbe permesso agli ultimi combattenti fascisti di “morire col sole in faccia” – non fu un inganno disperato, ma un piano conosciuto e condiviso, che fu alla base degli spostamenti delle colonne fasciste nei giorni 25, 26, 27 e ancora 28 aprile.
 
Fonte art.
 

Il nazionalsocialismo.

Autore: Adriano Romualdi.Nel Settembre del 1919 Adolf Hitler aderisce al minuscolo «Partito dei Lavoratori Tedeschi» (DAP). Nel Febbraio del 1920 – divenutone il dirigente di maggior rilievo – lo rilancia come «Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi» (NSDAP). Il programma reclama l’abolizione dei vincoli del Trattato di Versailles, la unificazione di tutti i Tedeschi in un solo Reich, la degradazione degli ebrei a cittadini stranieri, la statalizzazione delle grandi imprese, la partecipazione agli utili, la creazione di un «sano ceto medio» etc. ll nuovo partito si afferma soprattutto in Baviera. La sua base si recluta tra ex-combattenti, studenti e piccolo-borghesi sensibili agli appelli patriottici e spaventati dai moti comunisti. Per proteggere le proprie riunioni dalle azioni di disturbo delle sinistre, Hitler fonda le SA, squadre d’azione con funzione anticomunista. Col favore del governo regionale bavarese, monarchico e conservatore, e con la complicità di esponenti dell’esercito e della polizia bavarese, il movimento hitleriano si sviluppa fino al Novembre del 1923 – mese in cui i Nazionalsocialisti tentano di impadronirsi della Baviera per marciare su Berlino. ll putsch è represso e il partito è sciolto.Alla sua uscita di prigione Hitler fonda di nuovo lo NSDAP (1925), il quale – grazie ai fratelli Strasser – incomincia a diffondersi nella Germania del Nord. Alla fine del 1925 gli iscritti sono 27.000, alla fine del 1926 49.900, alla fine del 1927 72.000. Nel 1928 il Partito conquista 12 seggi in Parlamento. È con la crisi economica del 1929 – che fa crescere fino a 6 milioni il numero dei disoccupati -, che il Partito Nazista diventa un partito di massa. Nelle elezioni del Settembre 1930 i Nazisti ottengono 107 deputati e, in quelle del Luglio 1932, 230.
Confluiscono nel Nazismo:
a) ex-combattenti e nazionalisti che vogliono liberare la Germania dalle umilianti condizioni del Trattato di Versailles;
b) i giovani, attratti dal dinamismo del nuovo partito e dal mito del Terzo Reich;
c) la media e piccola borghesia minacciata dalla crisi economica, dalla concentrazione del capitale e dai progressi del partito comunista;
d) i disoccupati o buona parte del sottoproletariato.
L’ascesa del Nazismo si compie sullo sfondo della crisi degli altri partiti:
1) I socialdemocratici, responsabili – agli occhi della borghesia tedesca – dell’umiliazione nazionale del 1918;
2) i comunisti, impediti dalla politica di Stalin di far fronte comune coi socialdemocratici;
3) i partiti borghesi, incapaci di costituire una solida maggioranza di governo.
Il 30 Gennaio 1933, il Presidente del Reich von Hindenburg incarica Hitler di formare un governo di coalizione con i conservatori nazionalisti (DNVP). L’incendio del Reichstag, le elezioni del Marzo 1933 – in cui i Nazisti ottengono il 43,8 per cento dei voti – permettono al Partito Nazionalsocialista di sciogliere le organizzazioni avversarie e di impadronirsi di tutto il potere. Resistono più a lungo alla «nazificazione»:
1) gli operai di molte zone industriali organizzati dai sindacati;
2) molti ambienti cattolici ostili a certe tendenze neopagane;
3) singole frange della vecchia classe conservatrice infastidita dal populismo del Regime.
Dopo la eliminazione della opposizione interna di sinistra nella purga del 30 Giugno 1934, lo stato nazista si avvia ad assumere la sua fisionomia definitiva. Esso si fonda:
a) sullo scioglimento dei partiti politici e sulla loro sostituzione col Partito Nazionalsocialista quale partito della nazione tedesca;
b) sulla sospensione delle autonomie regionali e il coordinamento dei Länder ad opera dell’autorità del Reich centrale;
c) sulla unificazione delle polizie regionali in un’unica polizia dipendente dal Reichsführer SS Himmler.
d) sulla creazione di campi di concentramento per gli avversari politici del regime;
e) sulla unificazione delle organizzazioni dei lavoratori nel Fronte del Lavoro e su una legislazione del lavoro basata su principi di solidarismo tra imprenditori e lavoratori;
f) sulla creazione di numerose forme d’assistenza ai lavoratori (case, assistenza medica, l’organizzazione ricreativa «Forza e gioia», la Volkswagen, «macchina del popolo») tali da dare un senso di sollievo dopo la crisi economica;
g) sulla mobilitazione dei giovani nella Gioventù Hitieriana e sul servizio del lavoro annuale e obbligatorio imposto ai giovani di famiglia borghese per una migliore conoscenza degli operai e dei contadini.
La rapida diminuzione del numero dei disoccupati, la rapida eliminazione degli elementi più turbolenti del Partito annidati nelle SA, guadagnano al regime hitleriano le simpatie della classe media e dei militari. Una propaganda sistematica illustra le realizzazioni del regime e la Gestapo sorveglia gli oppositori.
Mentre il regime si consolida, si lasciano individuare le seguenti tendenze:
a) un sostanziale interclassismo che porta alla ribalta della vita tedesca la piccola borghesia prima mortificata;
b) una tendenza a proteggere i piccoli commercianti e i piccoli risparmiatori;
c) una tendenza a conservare al contadinato una posizione di privilegio con le leggi sulla proprietà ereditaria (Reichserbhofgesetz) e sul maggiorascato;
d) la tendenza delle SS – la milizia del partito – a considerarsi una specie di stato nello stato e ad accrescere i suoi poteri.
Su questa complessa realtà sociale si stende l’uniformità dello stato totalitario con la sua propaganda ribadente i seguenti valori:
a) la grandezza tedesca che si è manifestata dapprima nel Sacro Romano impero (il primo Reich), poi nell’Impero prussiano-bismarckiano (il secondo Reich) e che ora ha trovato una terza incarnazione nel Terzo Reich nazionale e sociale;
b) la, purezza della stirpe tedesca (rappresentata soprattutto dal tipo nordico) a protezione della quale si toglie agli ebrei la cittadinanza germanica e si prendono svariate misure eugenetiche;
c) lo spirito militare – incarnato nella tradizione prussiana – e lo spirito contadino, esaltato nel mito del «sangue e della terra».
Comunque, il Terzo Reich acquista un senso solo come preparazione alla rivincita. Fin dalle origini del partito, lo scopo di Hitler è quello di sconfessare il trattato di Versailles e rovesciare il verdetto della Prima Guerra Mondiale. Gli obiettivi di politica estera del Nazionalsocialismo sono:
a) l’unione col Reich dell’Austria, dei Sudeti, di Memel e di Danzica;
b) la riconquista dell’antica posizione di predominio della stirpe tedesca nell’Europa centrale e danubiana;
c) la guerra contro la Russia bolscevica con la conquista di uno spazio vitale all’Est.
La revisione delle clausole del trattato di Versailles incomincia con la reintroduzione del servizio militare obbligatorio (marzo 1935) e continua con la rimilitarizzazione della Renania. Nel 1938 – dopo essersi assicurato l’amicizia dell’Italia — Hitler annette l’Austria, dove fin dal 1918 molte voci si erano levate a favore dell’unione con la Germania. Uguale favore incontrano le truppe tedesche entrando nel territorio dei Sudeti. Con ciò, più di dieci milioni di Tedeschi sono stati riuniti al Reich. Ma qui si vede che il principio dello spazio vitale ha il sopravvento su quello di nazionalità: nel Marzo 1936 Hitler si annette la Boemia e la Moravia. Il pericolo di guerra, nuove persecuzioni antiebraiche, talune misure di eugenetica e di eutanasia ridestano una certa opposizione, rappresentata soprattutto:
a) dai militari, che valutano il rischio di un conflitto mondiale;
b) dalle Chiese, ostili alla politica razziale;
c) da taluni circoli dell’alta borghesia e dell’aristocrazia che disprezzano il nazismo come un regime di parvenus.
Tuttavia, il regime mantiene il controllo della situazione e può dare il via alle ostilità contro la Polonia. Scoppiata la guerra mondiale, l’annientamento della Polonia, la tempestiva occupazione della Norvegia, la sensazionale vittoria sulla Francia rinforzano il regime nazista creandogli intorno un clima di successo e fiducia. Intanto, l’occupazione dell’Europa occidentale e settentrionale, e poi di quella danubiana-balcanica, creano una nuova situazione caratterizzata:
a) dalla leadership della Germania Nazista rispetto agli altri fascismi europei;
b) dal lento albeggiare dell’idea d’un «Nuovo Ordine» europeo;
c) dalla formulazione di questo «Nuovo Ordine» non in termini di uguaglianza, ma – come vuole la logica del nazionalismo – secondo il rango di ogni stirpe: Neuordnung Europas aus Rasse und Raum («riorganizzazione delPEuropa sui principi del sangue e dello spazio»).
Nel 1941 la Germania attacca la Russia. La guerra alla Russia trae origini – oltre che dalla esigenza di eliminare l’esercito sovietico prima che gli Anglosassoni siano pronti a uno sbarco – dalla volontà di annientare il bolscevismo conquistando l’ambito spazio vitale all’Est. La guerra contro la Russia crea una nuova situazione caratterizzata:
a) dal perfezionamento del fronte dei fascismi guidati dalla Germania nella «Crociata antibolscevica»;
b) dalla culminazione della lotta ideologica contro il bolscevismo – motivo comune a tutti i fascismi – e di quella antiebraica, poiché nella concezione di Hitler ebraismo e bolscevismo si equivalgono;
c) dallo sviluppo delle Waffen SS con reclutamento di volontari dapprima soltanto «germanici», poi anche «europei».
Quindi la posizione del Nazionalsocialismo si evolve attraverso i tre stadi seguenti: stadio pantedesco (riunione dei Tedeschi dell’Austria e dei Sudeti nel Reich); stadio pangermanico (sincronizzazione di Danesi, Norvegesi, Olandesi e Fiamminghi col Reich); stadio europeo (egemonia del Reich sull’Europa come il Sacro Romano Impero di Nazione Germanica nel Medioevo). La dichiarazione di guerra all’America nel Dicembre 1941 apre un ulteriore capitolo nella storia della guerra, le cui principali caratteristiche sono:
a) il configurarsi del conflitto come un duello tra la concezione fascista da una parte, e quella democratica e comunista dall’altra;
b) la pressione esercitata da questa nuova dimensione ideologica sui regimi «nazionali» alleati della Germania;
c) la concezione dell’«Ordine Nuovo» come una specie di «dottrina di Monroe dell’Europa» contro le ingerenze russo-americane.
Così il Nazionalsocialismo approda – attraverso l’idea di razza e di spazio – ad una visione globale del problema europeo. Questa visione prevede la egemonia dei popoli più importanti per sangue e numero e un’ideologia dell’Europa in funzione dell’egemonia tedesca. Intanto, la guerra va esasperando i tratti del regime – ma qui, a differenza dell’Italia non emerge alcuna contraddizione, sebbene una spietata coerenza. La coerenza di uno stato che accentua la sua fisionomia totalitaria attraverso:
a) la crescita della milizia di partito – le SS – ad un fattore determinante in tutti i settori della vita civile e militare;
b) la crescita della sorveglianza e il moltiplicarsi dei campi di concentramento;
c) l’eliminazione di buona parte della vecchia classe dirigente che cospira contro il regime.
Peraltro, anche il totalitarismo nazista resta molto lontano da quello sovietico. La pianificazione totale dell’economia ai danni dell’individuo, la subordinazione dei beni di consumo alla produzione bellica non saranno mai del tutto attuati – nel che è anche da ravvisarsi una delle cause della sconfitta.
A differenza del Fascismo, il Nazionalsocialismo non ha trovato una monarchia sul suo cammino e ha potuto spingersi più oltre nella costruzione di uno stato totalitario. Peraltro, anche in Germania l’iniziativa privata non sarà mai minacciata, e il «totalitarismo» nazista si esprimerà soprattutto nel controllo della vita politica e spirituale. Ma anche il controllo spirituale trova un limite nella libertà di culto alle Chiese, che il Nazismo non oserà mai minacciare apertamente.
Attraverso il Nazismo, l’idea fascista – che era sorta e si era precisata in Italia – acquista rilevanza europea. La posizione centrale della Germania, la tradizione del Reich come potenza egemonica e ordinatrice, la ideologia della razza e dello spazio aiutano il fascismo tedesco a incanalare i fascismi in una prospettiva europea. Questa ideologia si precisa nella guerra contro l’America e la Russia come una «dottrina di Monroe» dell’Europa, una dottrina che proprio dalla catastrofe del Reich e dalla successiva spartizione dell’Europa in zone d’influenza russa e americana ha acquistato in credibilità.
 
Fonte art.
 
 
  

Il PD canta Bella Ciao dopo aver regalato 7,5 miliardi alle banche private



Questi sono i "signori" che governano......!!!Il video, definito "pirata" (perché ora è vietato riprendere il parlamento e divulgare video) è stato divulgato dal canale Youtube "M5sParlamento" e mostra i festeggiamenti dei deputati del PD dopo il maxi-regalo di 7,5 miliardi alle banche, al coro "Bella Ciao".

Alla luce di quanto approvato, avrebbero dovuto gridare "W il Bilderberg!", "W le banche!" e non "Bella Ciao", un canto popolare ormai associato ai Partigiani, con i quali loro, certamente, hanno ben poco a che spartire...

 

Dai camerati La Trincea Pisa .




La sera del 29 Gennaio, i militanti de LA TRINCEA PISA del FRONTE NAZIONALE Hanno appeso uno striscione con la scritta "ONORE AI MARTIRI DELLE FOIBE" presso la rotonda intitolata per l'appunto alle vittime di questa tragedia.
Questa azione ...ha avuto luogo come risposta all'increscioso scempio avvenuto nei scorsi giorni che ha visto la rottura della lapide nella rotonda.
CHI HA COMPIUTO QUESTO GESTO HA OFFESO TUTTO IL POPOLO ITALIANO, PERCHE' LE VITTIME DELLA STRAGE COMPIUTA DAI PARTIGIANI COMUNISTI DI TITO NON ERANO "FASCISTI" MA ERANO "ITALIANI...........................

ONORE AI MARTIRI DELLE FOIBE


 

Video dall'amico Mauro Merlino.


La voce degli inascoltati.

In  un Italia dove la politica e' indifferete ai bisogni reali ma presente nei salotti Tv dove oramai tutto e' un teatrino di bugie..e intanto la gente MUORE!

Cerimonia al Campo della memoria.



Martedì 21 gennaio 2104, una delegazione ufficiale del Comune di Anzio guidata dall’assessore Sebastiano Attoni ha reso omaggio al Campo della Memoria, il sacrario militare che raccoglie i resti dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana.
Hanno partecipato alla sentita manifestazione l’Associazione Nazionale Volontari di Guerra, il gonfalone del Comune di Anzio, l’Associazione Xa Flottiglia MAS – RSI, l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia, una rappresentanza dell’Associazione Nazionale Carabinieri e una delegazione del Comitato Pro 70° Anniversario dello Sbarco di Nettunia.
Presenti, tra gli altri, Anna Maria Ricci Mussolini e Fiorella Cencetti, figlia di un Ufficiale Comandante della Decima MAS, impiegato anche sul fronte di Nettunia.
Importanti sono state le parole di Sebastiano Attoni che, a nome del sindaco, ha espresso il riconoscimento ufficiale dell’Amministrazione a chi si è immolato per l’onore d’Italia. Sul fronte di Nettunia, infatti, vennero impiegate diverse unità della RSI, come il Battaglione Paracadutisti “Nembo” (poi conosciuto con il nome di Compagnia “Nembo-Nettunia”); il Battaglione “Barbarigo” e il Gruppo d’Artiglieria “San Giorgio” della Decima MAS; il II Battaglione SS italiane “Vendetta” (poi conosciuto con il nome “Nettuno”); il I Battaglione M “IX Settembre”; la 5a Compagnia Studenti Volontari dei Granatieri di Sardegna; il Reggimento Arditi Paracadutisti “Folgore”; senza dimenticare il contributo dei Carabinieri e dei Militi della GNR a ridosso della testa di ponte e nelle immediate retrovie. Non a caso il primo caduto della RSI sul fronte di Nettunia è un carabiniere, il Brig. Giuseppe Pitruzzello ucciso da un soldato statunitense nelle prime ore dello sbarco.
Con la Preghiera del Marinaio si è conclusa la manifestazione patriottica che ha avuto il compito di ricordare le unità italiane schierate in prima linea contro gli invasori angloamericani, per l’onore d’Italia.



 

Foibe, si torna alla congiura del silenzio. C’era da aspettarselo…



Di Girolamo Fragalà.


Neanche una legge dello Stato riesce a rompere il muro. Un muro che è stato costruito da anni di silenzio, di bocche cucite, di negazionismo. La tragedia delle Foibe, per molti, è un qualcosa di occultare, perché non conviene politicamente, perché troppe sono le responsabilità anche della sinistra italiana. Sembra essere ritornati tutti d’un colpo a qualche anno fa, un salto all’indietro della politica. Anzi, di una ben individuata politica, la peggiore. E alla vigilia della giornata del 10 Febbraio, dove tutti dovrebbero ricordare il massacro, c’è ancora una diffusa indifferenza, la voluta noncuranza di molte amministrazioni che si limitano a organizzare il minimo indispensabile. Serpeggia un sospetto, questo accade da quando al governo non c’è più il centrodestra. Fra tecnici e strane intese, il risultato è evidente: sembra svanito nel nulla l’enorme lavoro fatto per restituire ai libri di storia quelle pagine strappate e alla memoria della nostra Nazione il sacrificio di tante vittime, di tante donne e uomini “colpevoli” solo di essere italiani. Vittime dei comunisti di Tito. E perciò vittime di serie B. Eppure c’è stato un momento di grande partecipazione, con la Rai che trasmise una toccante fiction e con un sentimento (quasi) unanime di dolore, bipartisan nelle istituzioni e tra la gente. Oggi non è così, persino lo spettacolo di Cristicchi – un artista notoriamente di sinistra che ha avuto il coraggio di mettere in scena la tragedia dell’esodo e delle Foibe – è stato preso di mira dai centri sociali ed è stato “retrocesso” in seconda serata dalla Rai. Non c’è nulla da meravigliarsi, i tempi sono cambiati (in peggio). Basti pensare che il sindaco di Roma, Ignazio Marino, non ha portato nemmeno un fiore ad Acca Larentia, nell’anniversario della strage che vide come vittime tre giovanissimi, la cui colpa era quella di essere missini. La scusa: non gli piaceva la lapide. Complimenti.

Fonte art.    http://www.secoloditalia.it    

Pisa, dopo l’oltraggio alla lapide sulle foibe arriva la proposta: celebriamo lì la Giornata del ricordo


Di Romana Fabiani.

Non c’è riparazione che tenga di fronte alla stupidità e all’inciviltà dei vandali, peggio se ammantati di ideologia. Ma qualcosa si può fare, come ha proposto oggi il consigliere comunale di Pisa dopo l’oltraggio alla lapide dedicata ai “Martiri delle foibe”.  Per Riccardo Buscemi, Forza Italia, (come riporta Pisatoday on line) «non basta la doverosa condanna da parte di tutte le forze democratiche della città, occorre qualcosa di più concreto che vada oltre le dichiarazioni di rito: in occasione della prossima Giornata del Ricordo, il 10 febbraio, chiedo al comitato delle Celebrazioni (presieduto dal prefetto Francesco Tagliente) di programmare proprio lì, in quella “Rotonda Martiri delle Foibe”, la cerimonia dell’alzabandiera. Due giorni fa, infatti, proprio nel giorno della Shoah, è stata distrutta la targa commemorativa ed è stata sostituita dalla scritta “Pisa antifascista”, l’episodio è avvenuto nella zona dove si svolge il mercato cittadino, all’esterno delle mura del centro storico. «Proprio nel giorno della memoria – aveva commentato a caldo il sindaco di provata fede Pd, Marco Filippeschi – non si sentiva alcun bisogno sul paragone sottinteso fra i caduti della Shoah e i martiri delle Foibe indicati da alcuni come fascisti. Così si semplifica e si travisa una vicenda dolorosa. Inutile spiegare a costoro la storia del dramma delle popolazioni giuliane e dalmate in un momento terribile come quello della fine della guerra nella ex Jugoslavia». I fatti della rotonda – ha spiegato – meritano un giudizio duro e deciso: «Pisa è il luogo in cui, nella tradizione di città di studio e ricerca, si riflette con spirito libero sugli avvenimenti del ’900. Per ricordare le vittime della violenza da qualunque parte esercitata».

Fonte art.  http://www.secoloditalia.it   

OH BELLA CIAO.




OH BELLA CIAO… Durante i disordini seguiti al voto sul decreto Imu-Bankitalia i deputati del Pd e di Sel hanno iniziato a cantare “bella ciao” rivolgendosi ai ...parlamentari grillini che avevano contestato duramente la conversione in legge della rivalutazione delle quote della Banca d’Italia e la sua trasformazione in Public Company, misure queste che favoriranno, oltre al sistema bancario, la definitiva cessione ad investitori stranieri, soprattutto banche d’affari anglosassoni, della nostra sovranità monetaria e delle nostre riserve auree. Tre considerazioni: 1)La canzone dei partigiani non era “Bella ciao”, il vecchio canto delle mondine, ma “Fischia il vento” copiato da una canzone popolare russa, “Katjuscia”, perché i partigiani comunisti avevano come punto di riferimento l’URSS, non l’Italia; il mito di “Bella ciao” come inno dei partigiani fu costruito ex post, per cercare di minimizzare, utilizzando una ballata popolare, la stretta dipendenza delle brigate Garibaldi dai loro padroni sovietici. 2)Gli eredi del PCI, ossia il PD e SEL, oggi hanno fatto il giochino di sempre della sinistra, estrema e no, ossia appoggiare i banchieri che, in cambio, hanno sempre appoggiato loro, fin dal 1917 e poi oltre. 3)I partigiani che dal 1943 in poi s’allearono con i gangster volanti anglosassoni che bombardarono le nostre città sono della stessa pasta dei “neopartigiani” che oggi, con un voto infame ma degno di loro e dei loro predecessori politici, hanno permesso che i gangster finanziari anglosassoni s’impadroniscano del nostro patrimonio nazionale.AO… Durante i disordini seguiti al voto sul decreto Imu-Bankitalia i deputati del Pd e di Sel hanno iniziato a cantare “bella ciao” rivolgendosi ai ...parlamentari grillini che avevano contestato duramente la conversione in legge della rivalutazione delle quote della Banca d’Italia e la sua trasformazione in Public Company, misure queste che favoriranno, oltre al sistema bancario, la definitiva cessione ad investitori stranieri, soprattutto banche d’affari anglosassoni, della nostra sovranità monetaria e delle nostre riserve auree. Tre considerazioni: 1)La canzone dei partigiani non era “Bella ciao”, il vecchio canto delle mondine, ma “Fischia il vento” copiato da una canzone popolare russa, “Katjuscia”, perché i partigiani comunisti avevano come punto di riferimento l’URSS, non l’Italia; il mito di “Bella ciao” come inno dei partigiani fu costruito ex post, per cercare di minimizzare, utilizzando una ballata popolare, la stretta dipendenza delle brigate Garibaldi dai loro padroni sovietici. 2)Gli eredi del PCI, ossia il PD e SEL, oggi hanno fatto il giochino di sempre della sinistra, estrema e no, ossia appoggiare i banchieri che, in cambio, hanno sempre appoggiato loro, fin dal 1917 e poi oltre. 3)I partigiani che dal 1943 in poi s’allearono con i gangster volanti anglosassoni che bombardarono le nostre città sono della stessa pasta dei “neopartigiani” che oggi, con un voto infame ma degno di loro e dei loro predecessori politici, hanno permesso che i gangster finanziari anglosassoni s’impadroniscano del nostro patrimonio nazionale.

Fonte art. Forza Nuova.