mercoledì 11 novembre 2015

SE I NOSTRI POLITICI SAPESSERO CHE COSA È LA DEMOGRAFIA...

siamfatticosi’

Bollettino di informazione interno all’ Associazione Politica Movimento Mussoliniano 
Mensile a distribuzione interna e gratuita responsabile Antonio Rossini Riferimenti : siamfatticosi54@libero.it  -  tel. cell. 338 85 75 446


La demografia, questa sconosciuta: mi verrebbe da dire, sentendo certa nostra sprovveduta “classe dirigente” pontificare sui più disparati argomenti senza porsi il problema delle cause e, soprattutto degli effetti, di eventi che potrebbero sembrare casuali, accidentali, isolati; ma che invece sono legati tra di loro da precisi rapporti di causa-ed-effetto, e le cui più spiacevoli (e previdibilissime) conseguenze potrebbero essere forse prevenute con un po’ di sano realismo.
Un ausilio importantissimo, essenziale per lo studio (e per la soluzione) di tanti fra i problemi che oggi assillano i popoli potrebbe certamente essere fornito dalla demografia. E non – a modesto parere del sottoscritto – come fattore a sé stante, come scienza da laboratorio; bensì come preziosa suggeritrice – mi si passi il termine – di possibili rimedi alle urgenze dell’ora presente.
La demografia – com’è possibile apprendere da un qualunque dizionario – è la scienza che studia le dinamiche della popolazione del mondo (o di una sua parte) sia sotto l’aspetto biologico che sotto l’aspetto sociale. La demografia come scienza è nata in pratica con il positivismo (quindi appartiene teoricamente al bagaglio culturale di una sinistra illuminata); in Italia ha avuto il suo momento di maggior fortuna durante il periodo fascista (quindi è teoricamente transitata nel patrimonio della destra populista). Nel dopoguerra la demografia ha subìto un certo ostracismo, perché da taluni considerata “scienza fascista”. Nelle università fu declassata al rango di “materia complementare”, di quelle che “si davano” per alzare la media. Il suo insegnamento venne solitamente affidato – almeno in un primo tempo – a docenti che non avevano paura di apparire legati al “deprecato regime”; qui da noi – ricorderanno quelli della mia generazione – ad un siciliano illustre quale Alfredo Cucco, oculista di fama, già alto gerarca fascista e poi parlamentare del Movimento Sociale Italiano.
Quali che siano gli antecedenti storici, comunque, oggi una buona ripassata ad un onesto manuale di demografia sarebbe utile a tanti; e senza neanche il timore di apparire “nostalgici”, giacché le dinamiche del popolamento sono oggi completamente diverse rispetto a quelle degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Mi permetto di suggerirne la lettura, in uno con quella di alcuni dati statistici relativi alla popolazione del mondo, dei suoi continenti e delle sue nazioni, della nostra in particolare; dati da considerare non in termini
astratti, ma alla luce della realtà politica, sociale, economica e antropologica di questo momento storico. La statistica, d’altro canto, è stata da sempre una componente essenziale della demografia.
Cominciamo, dunque, dal più inquietante dei dati statistici: nella prima metà dell’Ottocento, quando il positivismo muoveva i suoi primi passi, tutti gli abitanti del mondo non raggiungevano il numero di un miliardo; gli europei erano circa 200 milioni, il 20% del totale. Centocinquant’anni dopo, nel 1950, la popolazione mondiale era aumentata del 150% (toccava i 2 miliardi e mezzo) e l’incremento della popolazione europea era più o meno in linea (550 milioni). Dopo poco più di mezzo secolo, nel 2011, gli abitanti del globo erano già più che raddoppiati (7 miliardi), mentre gli europei erano 700 milioni, il 10%. Nel 2050 – secondo le previsioni – la popolazione mondiale salirà a 10 miliardi, mentre quella europea scenderà a 600 milioni. Altro dato che ci interessa particolarmente: gli africani, che nell’Ottocento erano la metà degli europei, sono oggi circa un miliardo, e nel 2050 saranno più o meno due miliardi. Crescita da capogiro, che va a braccetto con quella – numericamente maggiore ma percentualmente più bassa – degli asiatici: 600 milioni nell’Ottocento, 4 miliardi oggi, saranno oltre 5 miliardi nel 2050. E, ancòra, mentre fino a poco tempo fa si riteneva che un vagheggiato “declino della fertilità” avrebbe stabilizzato la popolazione mondiale attorno ai 10 miliardi, oggi si prevede solo un “rallentamento”: nel 2100, secondo le ultime proiezioni dell’ONU, gli abitanti del globo dovrebbero essere all’incirca 11 miliardi e 200 milioni; africani e asiatici al galoppo, europei (al netto degli immigrati) sempre in calo.
Ecco, questi numeri dovrebbero essere tenuti ben presente non soltanto da chi insiste ancòra sul “crescete e moltiplicatevi” in un mondo che ha sempre più fame e sete, ma anche da una classe dirigente europea (Merkel in testa e nanetti in fila per due) che teorizza una Europa “senza muri e senza barriere”, un po’ come quel capofamiglia folle che progettava di togliere porte e finestre alla propria abitazione. Hanno una pallida idea, questi signori, di quale scenario da incubo possa prefigurarsi – da qui a 35 anni – con mezzo miliardo di europei assediati da 2 miliardi di africani e da una parte almeno dei 5 miliardi di asiatici? Già, perché i migranti africani e asiatici continueranno ad avere come unica meta l’Europa, essendo l’America irraggiungibile, protetta com’è dall’immensità degli oceani.
Passiamo ad altro. Qualcuno si è chiesto il perché dell’impennata delle nascite nei Paesi cosiddetti “sottosviluppati”? Due i motivi: la fine delle politiche di controllo delle nascite nei paesi poveri (avversate da quasi tutte le confessioni religiose, in primis dalla cattolica) ed il progresso medico (che ha prodotto una drastica diminuzione di aborti e morti neonatali).
E perché questi medesimi meccanismi non hanno inciso anche sulla fertilità europea? Semplice: perché la popolazione europea – più evoluta rispetto ad altre realtà – ha programmato la propria prole in termini compatibili con le condizioni economiche generali. E oggi – come è evidente – il numero massimo di figli che una coppia “normale” può permettersi è di 2. Dal che deriva ciò che la statistica indica come “crescita zero”. E – si tenga presente – per “normale” intendo qualunque nucleo familiare che non sia in condizione di povertà o di abnorme agiatezza.
Perché ciò? Perché la società odierna “impone” dei “lussi” di cui si potrebbe benissimo fare a meno (due o tre autovetture per famiglia, un televisore in ogni stanza, un telefonino (possibilmente di ultima generazione) per ogni membro del nucleo familiare, le ferie al mare, la discoteca al sabato, il ristorante alla domenica, eccetera). E, mentre è possibile che una famiglia faccia o sia costretta a fare i “sacrifici” che le consentano di far quadrare il bilancio, l’economia generale non può agire allo stesso modo: due o tre auto per famiglia sono necessarie per tenere a galla l’industria dell’auto; e tutti gli altri “lussi” individuali o familiari servono per alimentare le altre industrie, il commercio, il turismo, i servizi. Il progresso (tecnologico, economico, sociale, culturale) ha generato quella che si suol definire “società dei consumi”; e tale società, avendo ovviamente bisogno dei “consumatori” per poter sopravvivere, ha modificato le abitudini del pubblico, suggerendo e, anzi, quasi imponendo nuove esigenze: auto, elettrodomestici, divertimenti, eccetera. Esigenze che inevitabilmente drenano quelle risorse familiari che, in un diverso contesto sociale, sarebbero probabilmente dedicate ad accogliere e ad allevare nuova prole.
Quanto sopra va necessariamente tenuto presente nell’elaborazione di una strategia per contenere il disastro che le statistiche demografiche preannunziano per l’immediato futuro. È possibile quella che taluno chiama “decrescita felice”? è possibile il ritorno ad una società protoindustriale, con poche auto, senza tv né internet
e, tutt’al più, con un telefono “fisso” nelle abitazioni meno modeste? Se tutto ciò non è ipotizzabile, allora la Politica europea deve necessariamente porsi un obiettivo irrinunciabile: il miglioramento, un forte miglioramento delle condizioni economiche della popolazione, perché solamente un maggiore benessere e, soprattutto, la certezza di un futuro ragionevolmente sereno potranno indurre gli europei a fare più figli, in modo da poter meglio fronteggiare gli squilibri demografici che si prospettano.
I lettori avranno notato che, citando la Politica, ho usato la “P” maiuscola. A ragion veduta. In un periodo di calma piatta, i popoli possono forse permettersi il lusso di politici con la p minuscola, di politicanti in cerca di affari e di affaristi travestiti da politicanti. Nei momenti drammatici come quello che viviamo oggi, nei momenti cruciali, è necessario che la Politica torni ad essere grande, torni ad avere grinta, volontà e genio creativo. Per esempio, via le riforme buone per un còmpito della prima classe di ragioneria, come quella che vuol mandare i nostri figli in pensione con 400 euro al mese; e largo a chi è in grado, per esempio, di pensare ad uno Stato che paghi le pensioni con denaro suo, creato da una banca di Stato, e non preso a prestito dalle banche d’affari e dai “mercati”.
Cosa non facile, perché le banche d’affari ed i mercati difficilmente rinunceranno a servirsi di tanti politici con la “p” minuscola, del tipo di quelli che – magari – non sanno nemmeno che cosa sia la demografia.
Nel bel mezzo della grave tormenta di quest’estate, con i parlamentari e i partiti giustamente andati a godersi 41 giorni di meritata vacanza (lavorano troppo e devono riposarsi, il crack nazionale può attendere una tutela), captiamo tuttavia un vento costruttivo e riparatore. Si levano infatti, qua e là, voci e tentativi di rappresentanza diretta degli interessi del nostro popolo.
Qualche esempio. Scusateci gli errori e/o omissioni.
La battaglia per la fuoriuscita dall’euro e dall’Europa delle banche (la cosiddetta Ue), contro la globalizzazione, le guerre di aggressione coloniale e i trattati capestro che aboliscono la sovranità nazionale e la giustizia sociale, già lanciata da un ventennio da un pugno isolato di uomini liberi, è fatto proprio da più parti. Senza guardare oltre le Alpi, dove è pacifica una graduale diffusione di questo comune sentire, la battaglia viene fatta propria in toto o almeno in parte da forze altre, quali i “Comunisti-sinistra popolare” di Marco Rizzo, “Per il Bene Comune” di Nando Rossi e Giulietto Chiesa, “Sinistra critica” del trozkista Franco Turigliatto, dalla linea neo-marxista di Costanzo Preve o Renato Pallavidini. D’altro canto, su posizioni eurasiatiste-eurabiste, ma un po’ di meno impegnate sul sociale, ha una sua consistenza il Coordinamento progetto eurasia di Claudio Mutti, Tiberio Graziani, Daniele Scalea e Stefano Vernole. Su un altro lato di mobilitazione, ma con obiettivi consimili, emergono i “socialisti nazionali” di Stelvio Dal Piaz e Maurizio Canosci, la “Confederatio” e, inoltre, il “Movimento Nazional Popolare” di Rutilio Sermonti e ampie fasce di “Forza Nuova” di Roberto Fiore come pure spaccati della “Fiamma Tricolore” con Roberto Bevilacqua e altri, i “Siamfatticosì” di Antonio Rossini e altre associazioni come il “Raggruppamento sociale” di Luigi Bongiorno o “ Terza Repubblica” e così via. Quindi il variegato e purtroppo polverizzato arcipelago delle associazioni di difesa dei
consumatori e dei centri anti-usura e anti-signoraggio, dei Marra, Frigiola, Fergnani, dei sindacati di base, delle società di tutela del cittadino dei Turrisi, Caracciolo, Vitali.
E le iniziative collaterali e/o le adesioni concrete a “cartelli neutrali”, da parte di “uomini liberi” tout-court. Forse il segnale più concreto di un soffio di vento costruttore.
Una volontà di partecipazione, singola o assembleare – rappresentata sia attraverso mobilitazioni su eventi specifici (esempi neutrali: libertà per l’irlandese Brendan Lillis o sit-in del 30 agosto alla Farnesina di protesta contro la Nato e la guerra alla Libia) e sia attraverso sintetiche proposte operative (esempi in atto: riunioni ferragostane programmatiche sul “fare” da parte del “gruppo dei settanta” con Alberto Mariantoni o della “sinistra nazionale”) – che rappresenta, forse, il sintomo più importante di una decisione reale di mettere la propria persona, le proprie idee, a disposizione di un progetto comune di libertà nazionale e di giustizia sociale.
Ma cosa manca, delineato in brevi imprecisi tratti questo stato antagonista nascente, perché tutto e tutti si coagulino e rafforzino in un vasto fronte comune?
Anzitutto, quando si tratti di “gruppi” o “chiese” con eredità ideologiche e dottrinarie antiche, serve un’onesta caduta delle pregiudiziali e delle convenzioni ad exludendum, con l’immediata archiviazione della propria storia in un archivio della memoria.
Quindi uno sforzo comune di sintesi, in tre o quattro slogans incontrovertibili ma densi di significato, a un tempo distruttivi e costruttivi, delle campagne da programmare.
Dunque lavoro preparatorio comune, tessitura graduale di una tela nazionale e “inter” nazionale comune e azione comune.
Ed ecco il fronte comune. (rinascita.eu)
Art da
siamfatticosi’
 

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